L’impoverimento esponenziale del sistema economico e culturale dell’Italia, conferma quanto le cause di questa decadenza vadano ricercate nelle politiche a favore dell’istruzione scolastica ed universitaria, le quali tuttora si stanno dimostrando tanto perniciose quanto fallimentari, non solo in riferimento alla preparazione degli studenti, ma anche e soprattutto in riferimento al loro futuro impiego nel mercato del lavoro. Nonostante il numero elevato di studenti universitari e le dotazioni intellettuali sempre più complete in confronto a quanto era offerto nei decenni passati, anche riguardo ai maggiori strumenti tecnologici e informatici a disposizione, la crescita della competenza è divenuta inversamente proporzionale all’incremento inflazionistico dei titoli accademici con valore legale.

L’insigne economista liberale Luigi Einaudi (nume del liberalismo classico a livello internazionale), che nel suo curriculum annoverò diversi ruoli svolti con grande lungimirante successo, come quello di giornalista, scrittore, accademico e rettore universitario, fu il Governatore della Banca d’Italia, cronologicamente il secondo presidente della Repubblica Italiana, ma il primo ad essere eletto (visto che Enrico De Nicola fu nominato dalla Costituente), nonché precedentemente senatore del Regno d’Italia e deputato dell’assemblea costituente, illuminò in modo incisivo su quali potessero essere le cause che avrebbero portato a questo attuale fallimento. Einaudi intravedeva nel monopolio statale dell’offerta scolastica e nel valore legale dei diplomi, l’avvilimento e la mortificazione delle facoltà intellettuali e morali dei cittadini, che oltre a determinarne una scadente istruzione, compromette ed opprime la libertà dell’insegnamento, impoverendone l’offerta concorrenziale, a danno della preparazione degli utenti finali, ossia gli studenti.

Invero, egli sosteneva che: “Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo”.

Per l’esimio liberale, il valore legale dei titoli di studio rappresenta l’esizio dell’apprendimento e fonte di iniquità accademiche e di dissidio e di frustrazione sociale, in particolare enucleava questo concetto evidenziando che: “Il valore legale dei diplomi dà luogo, ancora, ad un altro inganno e questo contro la società. Esso eccita le invidie e gli egoismi professionali. L’ingegnere, a causa di quel diritto a dirsi ing. dott.”, si reputa dappiù del geometra; ed entrambi sono collegati contro i periti agrari. I dottori in scienze commerciali sono in arme contro i ragionieri; e ambedue contro gli avvocati.

Dottori in legge, avvocati e procuratori combattono lotte omeriche gli uni contro gli altri. Chi ha detto che gli esempi scolastici delle contese dei ciabattini contro i calzolai, degli stipettai contro i falegnami, e di questi contro i carpentieri sono roba anacronistica, ricordi medievali? Si calunnia atrocemente il medio evo quando lo si fa responsabile dell’irrigidimento corporativo, che fu invece opera dei governi detti assoluti dei secoli XVII e XVIII; ma le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assolutistico parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano sull’orizzonte dei tempi nostri. Dare un valore legale al diploma di ragioniere, vuol dire che soltanto all’insignito di quel diploma è lecito compiere taluni lavori ragionieristici e nessun altro può attendervi; ed egli a sua volta non può fare cosa che è privilegio del dottore in scienze commerciali o dell’avvocato.

Quelle dei secoli XVII e XVIII erano idee atte a rovinare le finanze delle arti dei calzolai e dei ciabattini; ma, pur creando posizioni monopolistiche, non riuscivano ad impedire del tutto l’opera logoratrice dei non iscritti. Ché gli stati assoluti dei secoli scorsi disponevano, per farsi obbedire, di armi di gran lunga meno efficaci di quelle che sono proprie degli stati moderni; e dove non giungeva saltuariamente il dragone a cavallo, ivi prosperavano quelli che non avevano diritto di dirsi né ciabattini né calzolai. Oggi, la potestà pubblica giunge in ogni dove; ed i magistrati hanno decisamente maggiore autorità per far rispettare, come è loro dovere, la legge. Anche la legge iniqua, la quale, creando diplomi ed attribuendo ad essi valore legale, condanna alla disoccupazione coloro che, essendone sforniti, non possono attentarsi a compiere il lavoro che essi sarebbero pur capacissimi di compiere, ma è privilegio del diplomato”.

Dinanzi a tale scempio formativo e d’iniquità per la concorrenza professionale, si dovrebbe repentinamente restituire la dignità ormai mortificata al titolo dottorale, assegnandolo solo a coloro che si distinguono grazie alle loro facoltà morali e alle loro conoscenze scientifiche e non per aver conseguito un diploma superiore o universitario, cui è riconosciuto un valore legale da parte dello Stato, tramite l’apposizione di un timbro ufficiale. L’abolizione del valore legale dei titoli di studio comporterebbe l’eliminazione dell’esclusività per la partecipazione ai concorsi pubblici e questo sarebbe un vantaggio per la qualità e le competenze dell’amministrazione pubblica. Difatti, secondo quanto si evince dai dati Istat e della Banca d’Italia, da quando nella metodologia selettiva sono stati preferiti coloro che detengono un diploma universitario, a paragone con l’efficienza e con le qualità professionale della classe impiegatizia e dirigenziale dei decenni passati, che in prevalenza deteneva al massimo un diploma di scuola secondaria, non si è riscontrato alcun miglioramento dei servizi offerti dai dipendenti pubblici nell’esercizio delle loro funzioni.

Il così detto titolo di studio non ha garantito alcuna migliore efficienza e tanto meno una maggiore velocità della burocrazia e neanche è diminuita la corruzione. Di questa radicale riforma ne gioverebbe anche e soprattutto il mondo accademico e professionale, perché in tal modo verrebbe scardinato il monopolio delle Università di Stato e degli Ordini professionali, ossia di quelle caste intorno alle quali orbitano diversi ed esosi interessi economici e di potere. Grazie a questa riforma liberale ab imis fundamentis, si raggiungerebbe finalmente la liberalizzazione delle professioni, ponendo così fine al sistema limitativo degli esami di Stato e dell’opprimente predominio delle Università statali, oltre al fatto che con un tale modus agendi si eliminerebbero radicalmente le posizioni di privilegio acquisite.

La suddetta impostazione formativa, veramente liberale, che lo stesso Einaudi attinse dalla cultura anglosassone, non si limita solamente ad impedire il monopolio statale sul sistema scolastico, realizzando un sistema che garantisce e tutela un poliedrico pluralismo dell’offerta accademica, ma arriva al punto di negare l’obbligatorietà e la funzionalità effettiva del diploma per esercitare qualsiasi mestiere o professione, contestando e denunciando in modo draconiano e con argomentazioni apodittiche quanto sia iniqua e deleteria l’attuale condizione, in cui soltanto chi detiene un diploma può svolgere un lavoro a scapito di chi non lo possiede e come aggravante senza tener conto delle sue concrete e reali capacità e competenze, creandosi di conseguenza delle nefaste discriminazioni e degli iniqui privilegi non supportati da alcun merito sostanziale, se non quello formale sancito da un “pezzo di carta”.

“Buoni a nulla capaci a tutto” (Leo Longanesi).

Aggiornato il 26 aprile 2022 alle ore 12:08