
Esiste più la libertà di opinione? Dopo l’omologazione, la cancel culture e il politicamente corretto si è aggiunto l’ideologismo bellico. Siamo tutti ucraini. Così sembra, leggendo i giornali e seguendo la comunicazione. Oggi, poi, da Kiev parla alle Camere italiane, riunite a Montecitorio, Volodymyr Zelensky, il presidente. Ad ascoltarlo istituzioni e Governo quasi al completo: dalla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati all’omologo della Camera, Roberto Fico, il premier Mario Draghi e – ospite in aula – l’ambasciatore ucraino, Yaroslav Melnyk, oltre ai parlamentari.
Addio democrazia nostra, addio dissenso. Nei giorni scorsi gli ucraini avrebbero manifestato preoccupazione sui rischi di qualche contestazione a Zelensky. Non sono abituati ai nostri “buuu”, ai fischi, agli applausi, al barometro dell’Aula, a quegli eccessi per cui a volte sono costretti a intervenire i commissari, lo scampanellio del presidente di turno senza esclusione di allontanamenti, come è capitato per esempio al deputato Vittorio Sgarbi. La democrazia post-sovietica non ammette o non comprende queste manifestazioni, russi o ucraini che siano, questa è la loro cultura, la loro storia, intransigente e totalitaria scivolata nel marketing e nel consenso. Mi preoccupa tanto, mi lacera, non mi fa dormire la notte, il nostro dono più grande, la libertà, dissolto così alle nevi di quella parte di mondo che non è ancora uscita dal passato. Che usa quelle sirene che rendono le città spettrali, le cacciano indietro – come ha fatto notare Liliana Segre – in quel passato che né lei, nessuno di noi pensava di rivedere dal vivo dei telegiornali.
Non c’è più libertà di pensiero, al punto che se dici Lev Tolstoj o affermi di non voler rinunciare alla vodka sei schedato “putiniano” e tacitato come se volessi intavolare una discussione sul fatto che, in fondo, Adolf Hitler non fu quello che è stato raccontato. Assurdo. Perché, fino all’inizio di questo scempio bellico, l’informazione grondava di immagini di parlamentari, ministri e alte cariche tutti “amici di Putin”, a cui sono stati resi omaggi ufficiali e rassegne militari. Eppure, non eravamo “tutti russi”, ma noi italiani siamo fatti così, ci piace l’amicizia al posto della tirannia e soprattutto salutavamo di buon occhio la cordialità a un presidente russo dopo quello che ha maggiormente funestato la mia gioventù. E cioè “la cortina di ferro”, un popolo chiuso e relegato dentro i confini segnati dalla Guerra Fredda. Pensavamo a quei giovani come noi, che però non potevano viaggiare, lasciare il Paese, scambiare cultura, parlare, avere idee diverse. Io non sono stata in Russia, me lo ripromettevo come meta finale del mio libretto di viaggi. Ma sono stata in Cina, Giappone, India, tante volte negli Stati Uniti, ho vissuto quasi tre anni in Romania, dove ero stata prima della Rivoluzione ai tempi di Nicolae Ceausescu.
Sono stata da ragazza in Cecoslovacchia, a Praga, dove con due giornalisti coetanei ci sono capitate avventure da brividi, sia per entrare e sia per uscire sani e salvi. Ricordo che una sera in una affollata birreria ci avvicinarono dei giovani praghesi, stranamente uno di loro parlava un mezzo italiano. Incoscienza di quegli anni, accettammo l’invito a seguirli a casa di lui, per sentire della musica. Ci raccontò, per convincerci ad accettare l’invito, che il padre era un giornalista e dunque non ci sembrò vero, a noi che lavoravamo alla Rusconi Editore e al Corriere della Sera, di stringere un contatto. Non accadde nulla di pericoloso, tranne che il praghese che parlava quel po’ di italiano ci chiese di portare un biglietto a certi amici a Firenze. Prima, furbo, ci aveva sedotto con l’idea di un’esclusiva fuori città “dove sparano le Brigate rosse”. O forse disse “dove si allenano i tuoi amici”. Prenderlo il biglietto, non prenderlo? L’indomani andammo da soli a fare una girata da quelle parti, per vedere cosa ci fosse da fotografare. Il biglietto lo strappai io, senza neppure leggerlo attentamente, visibilmente, in piedi, nella strada, vicino allo sportello anteriore destro dell’automobile con cui ci accingevamo a tornare in Italia. Ma ai tempi c’erano le frontiere e… bisognava superarle. Non sto a dire, ma fu un miracolo se riuscimmo a uscire dopo essere stati trattenuti due giorni, sotto Pasqua, senza riuscire a contattare la nostra ambasciata. Pare ci mancasse un documento per l’auto, o che non fosse corretto. Lo facemmo finto, fintissimo, perché andando in Italia all’ambasciata cecoslovacca, come è abitudine italiana di sbagliare, avevamo preso una decina di questi foglietti e li avevamo ficcati nel porta oggetti sul cruscotto. Con quel documento “falso” ci presentammo alla frontiera coi militari della dogana armati.
Eravamo giovani, io e la collega carine, certamente simpatiche e iniziammo a scherzare con quei giovanotti ogni volta che gettavano gli occhi su quel documento. Quando ci fecero cenno con la canna del fucile di salire in macchina, mi chiedo ancora se si fossero accorti dal colorito dei volti della nostra paura. Avete visto quel film, “Vite sospese”, con Michael Douglas e Melanie Griffith? Fino a che non fummo dall’altra parte della frontiera, dissi a tutti “zitti, non dite una parola, non parlate” e scrutavo le torrette lungo il tragitto che parevano vuote. In fondo era la Praga liberata, bella, struggente, la città dell’amore dicevano i nostri tour operator, o si andava a fare il weekend a Vienna, a Budapest o a Praga. Io a Praga ci sono stata, pensavo tra me e me, nella Praga di Franz Kafka intendo, quella che mi affascinava e incuriosiva dopo le mie letture e i miei studi. Quando riuscimmo a lasciare la Cecoslovacchia, quando ci sentimmo al sicuro, fermammo l’auto e appoggiati agli sportelli, passandoci le mani tra i capelli e respirando l’aria verde e tranquilla, ci dicemmo “ce l’abbiamo fatta, è andata bene”.
Come è finita? Da ridere, cari “siamo tutti ucraini, putiniani, europei coesi”. Mesi dopo mia madre mi chiese se avessi smarrito un documento relativo all’automobile durante quel viaggio. Balbettai, farfugliai. Mio padre, intanto, mi porse una busta bianca. La aprii e, toh, c’era il documento valido e convalidato dalla nostra ambasciata a cui avevamo fatto regolare richiesta, ma essendo chiusa nei giorni di Pasqua, nonostante le nostre numerose chiamate e sollecitazioni, non avevano potuto mettere il visto. Rimasi di ghiaccio. Papà, che era cresciuto tra le due guerre in Lussemburgo, non disse una parola. Mamma, che lavorava in Rai, aveva un’espressione stizzita. Io avvertii la mia amica collega, poiché sua era l’automobile, che avevano spedito al mio indirizzo il suo documento della sua Volvo. Insomma, chissà come finirò ora in questa Europa schiacciata a tenaglia tra la Russia e tutto l’ex blocco sovietico.
Non è forse così? Vladimir Putin ci minaccia e Volodymyr Zelensky parla alle Camere italiane. Io non condivido quanto sta accadendo in Ucraina, far combattere non solo militari dell’esercito – come sarebbe normale – ma giovani sopra e forse anche sotto i diciotto anni tra civili, vecchi, donne e bambini, chi in fuga e chi intrappolati, lo considero crudele. Anche perché io non rinuncio a nulla della Russia, per le ragioni che ho spiegato.
Aggiornato il 22 marzo 2022 alle ore 11:35