Fondi europei: respinto il ricorso di Ungheria e Polonia

La Corte di giustizia dell’Unione europea respinge, con sentenza inappellabile, i ricorsi di Ungheria e Polonia contro il meccanismo che vincola la possibilità di ottenere i finanziamenti europei al rispetto dei principi dello Stato di diritto. I due Paesi, infatti, avevano adito alla giustizia comunitaria proprio per conseguire l’annullamento di questa clausola, che avrebbe potuto escluderli dall’accesso ai fondi dell’Unione. Nello specifico, il regolamento – approvato a gennaio 2021 – consente al Consiglio europeo, su proposta della Commissione, di adottare misure quali la sospensione dei pagamenti in favore degli Stati che non rispettano le condizioni previste o la sospensione di uno o più programmi a carico delle casse comunitarie. Ungheria e Polonia avevano motivato il loro ricorso, asserendo l’inesistenza di una base giuridica adeguata all’interno dei trattati, che Bruxelles stesse oltrepassando i limiti della sua sfera di competenza e che stesse violando i principi di certezza del diritto.

Ora la Commissione europea potrà agire contro Ungheria e Polonia e privare entrambi gli Stati dei finanziamenti, posto che Bruxelles aveva già sospeso il benestare ai piani di rilancio economico presentati dai due Paesi nell’ambito del Recovery Plan. Finora l’atteggiamento dell’Esecutivo europeo era stato caratterizzato dall’attendismo, scegliendo di aspettare la decisione della Corte prima di attivare il regolamento in questione e di renderlo effettivo.

Sollecitazioni ad agire e a sospendere l’erogazione di denaro a Budapest e a Varsavia sono arrivate quasi subito da Renew Europe, il gruppo centrista e liberal-democratico dell’Europarlamento, che in un comunicato scrive che ora la Commissione non ha più scuse e che deve applicare il regolamento approvato da più di un anno, sostenendo altresì che a essere in difetto sono i due Paesi dell’Est: l’Ungheria per aver conculcato la libertà d’espressione, i diritti delle minoranze e dell’opposizione politica; la Polonia per la controversa riforma della giustizia, che comprimerebbe fortemente l’indipendenza dei giudici dal potere politico.

Come era prevedibile, Budapest e Varsavia hanno accolto con indignazione il verdetto della Corte europea. La ministra ungherese della giustizia, Judit Varga, ha parlato di “abuso di potere”; mentre il corrispettivo polacco, Sebastian Kaleta, ha bollato la sentenza come un “attacco alla nostra sovranità”. Tuttavia, la reazione più dura è sicuramente quella del premier magiaro, Viktor Orban, il quale ha dichiarato che si tratta di una sentenza politica e ideologica, e non giuridica. L’obiettivo, secondo il capo del Governo ungherese, sarebbe quello di piegare la resistenza degli Stati che rifiutano un’idea federale dell’Europa, ricattandoli attraverso il bilancio e la sospensione dei fondi (dei quali sia l’Ungheria che la Polonia sono tra i maggiori beneficiari).

Nella sentenza si legge che il regolamento mira a proteggere il bilancio dell’Unione europea da pregiudizi derivanti in modo sufficientemente diretto da violazioni dei principi dello Stato di diritto, e non già a sanzionare, di per sé, violazioni del genere. In altri termini, la clausola oggetto di controversia non avrebbe una funzione punitiva nei confronti di quegli Stati che non osservano puntualmente i criteri di liceità così come stabiliti dall’Unione, ma avrebbero lo scopo di impedire che il denaro comune venga utilizzato per fini contrari a quelli riconosciuti, accettati e promossi dall’Unione stessa.

I giudici comunitari hanno motivato la loro decisione sostenendo che il rispetto, da parte degli Stati membri, dei valori comuni sui quali si fonda l’Unione – quali lo Stato di diritto e la solidarietà – definiscono l’identità e il comune ordinamento giuridico dell’Unione medesima e pone le basi per la fiducia reciproca tra gli Stati. Poiché l’osservanza di tali valori costituisce una condizione per il godimento dei diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati agli Stati membri, l’Unione deve essere in grado, entro i limiti delle sue attribuzioni e delle sue competenze, di difendere tali principi. I giudici hanno aggiunto che, sebbene il rispetto di tali valori non possa essere ridotto a un obbligo cui ogni Stato è tenuto ad attenersi, non possa essere imposto in maniera coattiva dalle istituzioni comunitarie e non costituisca una condizione essenziale per l’adesione all’Unione, da esso non ci si può sottrarre dopo l’adesione e durante la permanenza all’interno della stessa.

Da questo punto di vista – prosegue la magistratura comunitaria – il bilancio è uno dei principali strumenti che consentono di concretizzare il principio fondamentale di solidarietà tra gli Stati membri. Pertanto, subordinare la possibilità di beneficiare dei fondi europei a determinati meccanismi e all’osservanza di certe condizioni, come quella prevista dal regolamento in questione sul rispetto dei principi dello Stato di diritto, è una facoltà che rientra nelle competenze conferite all’Unione dai Trattati, ai quali gli Stati membri hanno liberamente scelto di aderire e di soggiacere al momento dell’adesione.

Aggiornato il 17 febbraio 2022 alle ore 14:07