Il labirinto di Draghi: la tela di Penelope

Chi si (auto)candida è perduto! Così, almeno, appare in questo terzo inverno di Covid il destino di chi aspira apertamente all’agognata poltrona del Quirinale. Una sorta di macabro avvertimento infernale, del tipo “Arbeit macht frei”, iscrizione scolpita in ferro battuto sul famigerato cancello di ingresso ad Auschwitz. Perché, poi, il Presidente della Repubblica italiano è qualcuno (il massimo vertice dello Stato) che vive recluso nel Palazzo, lavora come uno stacanovista e, per giunta, non deve esprimersi nemmeno a gesti, né respirare, se possibile. A fronte di questo sacrificio, però, la Costituzione gli assegna poteri così incisivi che, se esercitati (a fisarmonica!) fino alle loro estreme conseguenze, possono terremotare il sistema dei partiti e mettere ordine in un Parlamento rissoso. I suoi famosi “Dpr” (Decreto del Presidente della Repubblica) possono influenzare in profondità l’organizzazione amministrativa dello Stato e le nomine apicali negli apparati pubblici.

Nessun Governo, che pure ha il potere di designazione degli alti burocrati, si sognerebbe mai di mettere il Presidente dinnanzi al fatto compiuto, senza consultarlo preventivamente sul merito e sul profilo delle persone da nominare. Per non parlare del suo potere di nomina (e di bocciatura!) dei ministri. E tutto questo Mario Draghi lo sa benissimo. E, naturalmente, come tutte le figure tecniche (cioè, senza partito, vedi, nell’ordine, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti) di altissimo profilo, che di meglio non ce n’è, aspirerebbe in segreto (ma forse, non tanto) a concludere al sommo Colle la sua folgorante carriera, come prima di lui fece Ciampi.

E qui, in un certo senso, casca l’asino. Perché Chi deve eleggerlo, cioè i Grandi Elettori, sono divisi se tenerlo a tutti i costi a Palazzo Chigi o promuoverlo al Quirinale. Il criterio discriminante (ma sostanzialmente ipocrita) è di dire in quale dei due Palazzi il suo ruolo sia più utile, anche se in realtà si sottintende quello meno dannoso per chi quella elezione o conferma è costretto a subirla. Nessuno, ma proprio nessuno dei mille e nove i prescelti opererà la sua scelta in funzione di ciò che è meglio per il Paese. Tutti penseranno, infatti, di comportarsi come Napoleone o Charles de Gaulle (l’aneddoto gira e viene intestato ora all’uno ora all’altro) che, posti di fronte a un generale che aspirava al bastone di Feldmaresciallo, risposero “non chiederti che cosa possa fare la Francia per Te, ma che cosa Tu possa fare per Lei!”, dando così il benservito all’incauto alto grado militare.

Invece, chi fa informazione corretta, come questo giornale, quella domanda è obbligato a farsela. Dicendo una verità scomoda: la vera arma che fa paura, in questo caso, è l’indipendenza di Draghi. Nessuno potrebbe mai mettere in dubbio che sia proprio lui il garante di fronte a Bruxelles e agli investitori internazionali, sia sulla tenuta del debito pubblico italiano, sia sul corretto utilizzo dei duecento e passa miliardi di euro, destinati (sulla carta) all’Italia dalla raccolta di capitali garantita dagli eurobond, messi poi nel fondo comune per la ricostruzione post-Covid denominato Next Generation Eu (NgEu). Chi vuole che Draghi resti presidente del Consiglio (che rappresenta poi, a tutti gli effetti, il potere Esecutivo a norma della Costituzione) lo fa, a suo dire, per le seguenti due fondate ragioni. In primo luogo, Draghi è il Deus-ex-machina come l’unico in grado di far muovere il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), realizzandone le “cinquecento” e passa missioni fissate dal NgEu, compresi i relativi progetti esecutivi e le riforme di sistema che si rendono necessarie e pregiudiziali al suo corretto funzionamento. E qui, francamente, non si capisce bene come si potrebbe realizzare per lui un ruolo di Autocrate (il leader che decide tutto lui, come Vladimir Putin per la Russia e Xi per la Cina), ben sapendo quanto e come la Costituzione italiana sia fobica e impeditiva affinché una simile ipotesi non si realizzi mai.

Tant’è vero che i conservatori del partito della Meloni hanno come riforma di bandiera quella del presidenzialismo (alla francese, si suppone). Perché la verità vera è che tutto il potere (di riforma) resta in mano ai Partiti rappresentati in Parlamento, che possono sabotare, svuotare o, addirittura, affossare qualunque anelito di cambiamento istituzionale. Se ne vedono le avvisaglie nella Giustizia, nella Pubblica Amministrazione, nel sistema degli appalti e così via.

Tutti ripetono che solo Draghi può tenere unita l’attuale Großen Koalition che, però, tanto grossa non è, visto che si è chiamato fuori il Partito Conservatore di centrodestra che i sondaggi danno testa-a-testa alle prossime elezioni con Partito Democratico e Lega salviniana. Il che, è palesemente falso: tutti d’accordo quando si tratta di sforare i limiti di bilancio, dando bonus a pioggia, in nome di una fantomatica ripresa che però, attualmente, non ha nulla dei caratteri di continuità che le servirebbero come l’aria che si respira. Invece, tutti-contro-tutti in Consiglio dei ministri quando le iniziative del premier vanno a toccare le constituencies dei singoli Partiti, per cui si assiste al solito, triste e umiliante (per chi ci guarda dall’estero!) caravanserraglio, subìto come una Via Crucis da Draghi stesso (che ora è chiamato a fare il maestrino d’asilo; ora il Mangiafuoco; ora chissà che cosa altro, tessendo un’interminabile Tela di Penelope!), al quale ci hanno sfortunatamente abituati i talk nazionali, in cui infuriano le solite “Sore Cesire” popolane di turno, soprattutto no-vax.

Invece, il Labirinto attuale in cui è costretto a muoversi l’ex Governatore della Banca centrale europea ha assai poco a che fare con lui, ma moltissimo con un sistema allo sbando dei partiti italiani leaderizzati al massimo e senza più ramificazioni nelle loro basi territoriali, soprattutto a causa della fluidità e della volatilità del voto elettorale, deciso molto più sui, e dai, social network che nelle assemblee di sezione, oramai del tutto inesistenti. Il bandolo della matassa, pertanto, è il seguente: se Draghi dovesse andare al Colle, come tutto lascia presumere, la chiave di volta non è quella di un accordo ferreo sul fatto che lo debba sostituire qualcuno in grado di mantenere unita l’attuale coalizione, obbligando contestualmente il futuro Presidente a spendersi perché resti tale. Le cose non stanno così: se è vero che l’Esecutivo post-Draghi deve essere affidato a un tecnico di altissimo spessore (e senza partito, sul tipo di Vittorio Colao o Giulio Tremonti), per raccogliere le sfide del Pnrr e ricevere per tempo i previsti finanziamenti europei del NgEu, è pur vero che sono i partiti stessi a dover sottoscrivere un patto di sangue per la realizzazione rapida e nei tempi giusti delle riforme istituzionali connesse, rinunciando a mettere i bastoni nelle ruote al prossimo Governo, tralasciando così i propri interessi di parte.

In secondo luogo, chi teme Draghi al Quirinale, lo fa per evitare il rischio di incorrere in un severissimo futuro (e indipendente!) Presidente della Repubblica, che non si farà di certo scrupolo nello sciogliere a ripetizione il Parlamento italiano, causa la ormai ben nota ingovernabilità dell’attuale, perennemente instabile quadro politico, dove ogni anno ci sono elezioni che mettono in fibrillazione le leadership di partito. E tantomeno si asterrà dall’inviare ripetuti messaggi alle Camere; o dal rinviare la firma di leggi scomode; o dal mettere limiti e paletti severi alla prassi aberrante del ricorso alla decretazione d’urgenza che, di fatto, espropria il Parlamento delle sue funzioni ma che, allo stesso tempo, lo solleva dalle proprie responsabilità politiche! Quindi, Draghi o non Draghi, è la politica italiana nel suo insieme che deve trovare l’uscita dal… Labirinto!

Aggiornato il 21 gennaio 2022 alle ore 10:22