L’antisemitismo inconscio del bolscevismo digitale

C’è una forma di antisemitismo – spesso inconscio, ma non per questo meno pericoloso – nei media italiani, figli di un razzismo inavvertito perché politicamente corretto. Si tratta di una versione invisibile del razzismo che gli stessi media esecrano e gli stessi partiti condannano (si pensi come esempio di questa coincidenza di tolleranza e intolleranza la possibile opzione di Liliana Segre come Presidente della Repubblica per i Cinque Stelle).

Come si sviluppa questa malattia della comunicazione? Per esempio, nel modo in cui è stato presentato su quasi tutti i tg un testo di Rosemary Sullivan, “Chi ha tradito Anne Frank. Indagine su un caso mai risolto”, edito da HarperCollins Italia e in uscita nelle librerie italiane. Premetto che si tratta di un saggio ben fatto, frutto di un’indagine digitale che ha confrontato migliaia di dati d’archivio, grazie ai quali l’autrice ha scoperto che la famiglia di Anne Frank fu “tradita” da un notaio, ebreo, per giunta. Il problema è il modo in cui la notizia viene presentata sui tg. Se si sbaglia l’accento, la notizia può “arrivare” al teleutente o al lettore di giornale così: Anne Frank morì, più che a causa dei nazisti tedeschi, per colpa di un infido notaio olandese. I neonazisti saranno contenti di notizie che resuscitano la falsa immagine di un ebreo infido e traditore del suo stesso popolo. Perché, se poi si va a sentire o ad approfondire meglio, la questione appare diversa: il notaio fu posto di fronte a una scelta, quella di rivelare dov’erano nascosti i Frank (e altri) oppure finire in un lager con la propria famiglia. Se si pone l’accento sul ricatto atroce, invece che sul “tradimento”, la notizia cambia di molto, anche se il direttore marketing della casa editrice forse non sarà contento.

Che dire, inoltre, del terrorista che nell’ultimo fine settimana ha fatto irruzione in una sinagoga del Texas, prendendo in ostaggio i fedeli? La vicenda è finita senza vittime, a parte l’attentatore, per fortuna. Ma anche in questo caso i media italiani hanno sbagliato, dichiarando – come se niente fosse – che il terrorista era un “cittadino inglese”. Vero, però se la metti così dici una verità ma con la lingua biforcuta del politicamente corretto. Forse gli inglesi stanno cominciando a odiare gli ebrei? Invece, quando leggo sul blog di Bari Weiss il nome del terrorista, che suona Malik Faisal Akram, capisco che si tratta di un integralista islamico, e non di un inglese in gita a che ha bevuto troppa birra ed era incavolato perché una ragazza lo ha deriso per i suoi brufoli. La notizia solo così trova un significato.

Bari Weiss inizia la sua corrispondenza dal luogo della tentata strage, Colleyville, Texas, ricordando che la settimana prima aveva incontrato una rabbina a Los Angeles. Si erano fermate a chiacchierare come vecchie amiche, parlando di surf e della migliore pizzeria di Los Angeles. Poi la rabbina si era messa a parlare con una collega, e poi aveva invitato la Weiss a fare con loro “un salto al poligono di tiro”, nei giorni seguenti. A sinistra, a questo punto, si solleverebbe il solito attacco all’America pistolera peggio che nei primi film di Quentin Tarantino. Eppure, l’attacco alla sinagoga texana ha fatto capire alla giornalista perché la rabbina e la sua amica andavano al poligono di tiro. La prossima volta che andrà a Los Angeles, forse, chiamerà l’amica rabbina per andare con lei al poligono di tiro, non perché adora sparare più di John Wayne ma perché ha seguito la vicenda della tentata strage.

L’attacco nel Texas è finito bene: il cattivo è morto e i buoni si sono salvati, come in un western. Non si può dimenticare che l’attacco più sanguinoso contro una sinagoga statunitense fu condotto nel 2018 a Pittsburgh (Pennsylvania), con 11 vittime. In quel caso l’attentatore era un nazionalista bianco. Nel 2019 ci furono altri attacchi e omicidi antisemiti, a Jersey City. Il giorno dopo, sul luogo della sparatoria che causò tre morti, non c’era neanche un fiore. A Pittsburgh solo quelli dei fedeli. Quando si succedono questi attacchi terroristici, inclusi quelli condotti in Israele, l’accento dei media mainstream non viene posto sulle vittime ebree, ma sull’identità dei carnefici. “Questa cosa mi terrorizza” dice Bari Weiss. Perché, se ispanici e neri hanno seri problemi in America, possono però sfilare e protestare. Possono porre dei fiori sul luogo dov’è morto uno di loro. Per gli ebrei, invece, è ormai normale che non succeda nulla, a parte qualche dichiarazione distratta. L’unica cosa che conta per i media antisemiticamente corretti è l’identità del terrorista, non quella della vittima. Gli ebrei sono delle vittime imperfette”.

È così anche in Europa. Il settimanale parigino Actualité Juive, a proposito dello scandalo sull’omicidio di Sarah Halimi, cita il caso Dreyfus. Parliamo di un efferato omicidio che non ha sortito nulla sotto il profilo giudiziario, dato il vergognoso pronunciamento della magistratura francese nei confronti dell’assassino. Sarah Halimi nel 2017 aveva 65 anni. Fu sequestrata nel suo appartamento, picchiata e gettata giù dal terzo piano. L’omicida era un giovane vicino di casa, musulmano immigrato dal Mali, che la conosceva come ebrea praticante e che si scagliò sulla vittima urlando “questo è per vendicare i miei fratelli!” e “ho ucciso il demonio!”. L’assassino fu prosciolto, perché “al momento dei fatti era sotto l’effetto dell’hashish”. Protestarono solo gli ebrei francesi, ma senza sortire effetto neanche nei processi di appello e Cassazione, forse perché la manifestazione si svolse senza rompere vetrine e attaccare la polizia.

In Italia, invece, i problemi consistono tutti nel modo di presentare le notizie. Vale anche qui vale un commento scritto sul blog di Bari Weiss: “Quando l’antisemitismo viene da destra, è definito una infamia. Quando viene da sinistra è presentato come la conseguenza di un rancore e quindi trova una specie di legittimità”. Questa nostra forma di bolscevismo semiotico è la quintessenza di una cultura in cui l’altro – idolatrato quando è dalla tua parte – viene denigrato, distrutto e irriso in maniera a volte esplicita (pensiamo all’odio delle sinistre nei confronti delle altre culture politiche), e altre volte in maniera implicita, ma non meno deleteria. Si pensi al continuo mantra contro gli americani e gli ebrei, giocato appunto su velature, accenti, notizie presentate in un certo modo, con un uso poco democratico della comunicazione, ma che appare e viene rappresentato come iper-democratico agli occhi del popolo.

Aggiornato il 19 gennaio 2022 alle ore 10:55