Oltre la scalata al Colle

M’ama, non m’ama… sfogliando la margherita di Mario Draghi di chi lo vuole al Colle o, al contrario, a Palazzo Chigi, affinché resti tutto com’è, a parte l’uscita certa dell’Incumbent (termine quest’ultimo con il quale viene designato negli Usa il presidente in carica), si ha la netta impressione che i mille e passa grandi elettori si affidino piuttosto alla Maga Circe che a Cartesio per operare con equilibrio e saggezza la loro scelta sul futuro titolare del Colle-Quirinale, dopo il 24 gennaio. In realtà, ci sarebbe un criterio affidabile per decidere dove tra i due Colli (Chigi/Quirinale) sarebbe più opportuno collocare l’attuale presidente del Consiglio, traendo proprio dalla sua caratteristica esclusiva l’ultimo petalo della margherita. La parolina magica si chiama “Esecutivo”, ruolo in cui eccelle Mario Draghi da Governatore, prima di Bankitalia e poi della Banca centrale europea. Quindi, per definizione, un tecnico al massimo livello mondiale, cosa che gli viene internazionalmente riconosciuta. Sarebbero sufficienti, in tal senso, i rapporti e la stima personale nei suoi confronti di presidenti americani come Barack Obama e Joe Biden, per non parlare dell’attuale segretario del Tesoro statunitense, Janet Yellen (già governatore della Federal Reserve), e dell’ex potentissimo cancelliere tedesco, Angela Merkel. Ora, però, quello che qui interessa come requisito necessario e indispensabile, per l’insediamento al Quirinale, attiene al ruolo super partes del presidente della Repubblica e della sua qualità intrinseca di ex appartenente di lungo corso al sistema politico italiano. Certo, il precedente di Carlo Azeglio Ciampi (nella cui scia si può esattamente collocare l’esperienza di Mario Draghi), lo rende assolutamente idoneo alla nomina presidenziale.

Il problema, però, è rappresentato dalla sua scarsa o nulla esperienza all’interno del sistema politico (partitocratico) italiano, non avendo dietro di sé né un Partito, né un Movimento politico che lo promuova fin dall’inizio attraverso l’espressione di voto dei suoi grandi elettori. E questo, per la verità, non sarebbe un grande problema, visto il precedente di Ciampi. Il vero dilemma cartesiano, però sta proprio nel termine “Esecutivo”, dato che Mario Draghi è (volente o nolente) l’anima costitutiva del Pnrr per la realizzazione delle, all’incirca, cinquecento missioni e svariate riforme istituzionali che a esso si legano e lo sottendono. Senza la sua capacità di tenere coesa una maggioranza-arlecchino, pronta a esplodere al minimo cenno di rilassamento, nel caso Draghi sia promosso al Colle, decisa a correre al si salvi chi può delle elezioni legislative anticipate, che cosa il Paese potrebbe aspettarsi dall’Europa, se non la più ferma condanna e censura per il più che probabile fallimento degli obiettivi del nostro Piano nazionale di risanamento? Quindi, sempre cartesianamente, visto il cronoprogramma e le scadenze previste fino al 2023 per la realizzazione del Pnrr, l’ultimo petalo della margherita non potrebbe che determinare la scelta per lui del Colle Chigi fino al 2023, per poi proiettarlo alla presidenza della Commissione Ue, come successore di Ursula von der Leyen.

Ma qui, com’è evidente, ci si accorge fin da subito del disagio che, in questo caso, potrebbe provare lo stesso Mario Draghi, sentendosi escluso da una promozione che ne gratificherebbe la fine carriera e, soprattutto, lo sottrarrebbe all’imbarazzo crescente di dover governare una ciurma indisciplinata e disobbediente, che scalpita per prepararsi alla prossima scadenza elettorale. Caos prevedibile e prodromico al più che probabile fallimento del Pnrr, visti gli insanabili appetiti dei Partiti, la mancanza di coesione della società civile e politica su sacrifici e riforme connessi e, soprattutto, sulla dichiarata inadeguatezza degli Enti locali a farsi carico della parte progettuale ed esecutiva relativa. E, poi, ci sono loro, i Grandi Elettori. Soprattutto i Cinque Stelle, disarticolati, divisi su tutto, con una leadership artificiale e senz’anima che non è in grado di garantire alcunché sul loro destino dopo il 2023. Così, c’è da aspettarsi un incredibile mercato delle vacche, che trarrebbe il suo massimo profitto dalle divisioni susseguenti al quarto scrutinio, con la prevedibile mancanza del superamento della soglia della maggioranza assoluta da parte del candidato (eventualmente) unico del centrodestra.

In tal senso, infatti, giocherebbe l’indeterminatezza di almeno due terzi degli attuali parlamentari, tra seggi disponibili (diminuiti di un terzo) nella prossima legislatura, e la quasi certezza della non ricandidatura, soprattutto tra i Cinque Stelle, vista la fine poco dignitosa della presunta Democrazia diretta, garantita nelle elezioni del 2018 dalla gestione della Piattaforma Rousseau. Pertanto, se Beppe Grillo & Company avessero fatto a suo tempo la mossa del cavallo, candidando Liliana Segre (certo, insistendo non poco affinché l’interessata accettasse la designazione relativa), cosa che avrebbe rappresentato un vero scoop repubblicano come prima donna al Quirinale e simbolo universale delle sofferenze dell’Umanità, si sarebbe avuta quasi per magia la transizione perfetta Chigi-Quirinale, visto che la Segre avrebbe fatto esattamente come Giorgio Napolitano, accettando di rimanere al Colle per il tempo strettamente necessario alla scadenza dell’attuale legislatura.

Intanto, il sistema politico, oltre alle turbolenze dei Cinque Stelle in disintegrazione, deve prepararsi anche all’evento opposto, ma egualmente destabilizzante, dell’integrazione in un campo largo delle anime della sinistra italiana, in cui abbondano i franchi tiratori, in grado di affondare Enrico Letta e il suo Partito Democratico di carta velina.

Aggiornato il 07 gennaio 2022 alle ore 11:00