Le strade di Draghi, tra Roma e Bruxelles

Dove vuole andare Mario Draghi? La stampa italiana è quasi unanime sul punto: “Al Colle, Al Colle!”. Ma è davvero così? Essendo gli italiani grandi appassionati di scommesse (ma molto, molto meno di cognizioni elementari di calcolo delle probabilità), l’opinione pubblica interna e internazionale, così come i Partiti italiani, si dividono nettamente tra favorevoli e contrari. Sarà utile esaminare, in merito alcune posizioni della stampa internazionale, in reazione anche alla conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi, iniziando da Le Figaro nell’edizione del 23 dicembre. Il quotidiano conservatore francese prende nota delle dichiarazioni di Draghi, in merito alla realizzazione delle 51 condizioni (sulle 527 previste in totale, così come concordato con Bruxelles), per ottenere in soli due mesi i primi 24 miliardi di euro, rispetto ai 235 previsti in totale, tra prestiti e grant, da erogare entro il 2026: “Il Piano di rilancio è la chiave di volta per far sì che con la crescita del Pil si riduca il peso del debito pubblico italiano, risolvendo per di più i problemi strutturali del Paese”. Delle 51 condizioni, tra le quali si citano l’avvio delle riforme su giustizia, pubblica amministrazione, fiscalità e concorrenza, soltanto due rappresentano degli obiettivi qualitativi.

Tutte le altre sono state semplicemente annunciate o ne sono state fissate le linee–guida, per cui molta parte del cammino rimane ancora da fare e restano fondati dubbi sui tempi di esecuzione e di effettiva “messa a terra” del Piano. “L’Italia in passato ha mostrato notevoli limiti nella sua capacità di corretto utilizzo dei Fondi europei per lo sviluppo, non essendo in grado di realizzare e gestire i grandi progetti infrastrutturali”. Soprattutto sono gli Enti Locali, chiamati ad amministrare ben 70 miliardi di euro (pari al 35 per cento del totale delle risorse) del Next Generation Eu, (NgEu) ad avere seri problemi nel gestire di qui al 2026 le indispensabili gare di appalto di opere e servizi connessi. Per ammissione dei loro stessi rappresentanti istituzionali, infatti, più del 40 per cento dei Comuni italiani interessati non sono all’altezza di realizzare le opere previste dal Pnrr, a causa soprattutto di organici carenti, diminuiti del 30 per cento in venti anni, in conseguenza dei continui tagli di spesa nelle finanze trasferite. Mancano, infatti, all’appello migliaia di tecnici qualificati (il cui trattamento economico è ben più oneroso del semplice impiego amministrativo per segretari e collaboratori), come ingegneri, architetti e tecnici specializzati.

Pertanto, per facilitare l’esecuzione dei progetti, il ministero competente ha predisposto un decreto legge per l’assunzione di 15mila persone a contratto determinato (e, quindi, conoscendo come vanno le cose in Italia, destinati inevitabilmente a trasformarsi, di qui a qualche anno, in contratti a tempo indeterminato, con notevole aggravio dell’attuale spesa corrente!) che dovrebbero, a loro volta, essere affiancati da un migliaio di esperti, con la qualifica di ingegneri, geologi, geometri, per i quali sono state avviate le procedure di assunzione a termine. La fase più delicata del Pnrr interverrà a partire da aprile del 2022, con l’entrata nel vivo delle riforme e il lancio delle grandi gare d’appalto. La questione fondamentale, pertanto, è di conoscere chi sarà alla guida del Governo a quella data. Secondo Mario Draghi, così come da lui dichiarato nel corso della conferenza stampa del 22 dicembre, “Sono state poste tutte le premesse necessarie per la prosecuzione della messa in opera del Piano, indipendentemente dalla persona che ne diverrà responsabile” come futuro capo del Governo. Il problema, però, sta tutto lì, nel nome del suo successore e se godrà dell’appoggio della stessa ampia maggioranza che attualmente sostiene Mario Draghi. Persino le procedure (che scatterebbero non appena l’attuale presidente del Consiglio fosse eletto presidente, con conseguenti dimissioni dal suo attuale incarico) per la scelta dei nuovi ministri potrebbero essere foriere di seri ritardi nell’esecuzione del Piano. Per cui è stato lo stesso Draghi a invocare continuità nella composizione della futura maggioranza di governo.

Allora, se Draghi divenisse presidente della Repubblica sarebbe in grado di condurre per mano il suo successore a Palazzo Chigi? Ebbene “No”, è stata la sua risposta in conferenza stampa, dato che a doverlo fare sono il Parlamento e i Partiti, visto che l’inquilino del Quirinale, chiunque esso sia, è semplicemente un Garante dell’unità nazionale. Il Financial Times in un editoriale del 21 dicembre 2021, a firma dell’arcinoto ex direttore dell’Economist, Bill Emmot, fa nettamente il tifo per l’ascesa di Draghi al Quirinale. Infatti, se il meccanismo istituzionale italiano fosse perfetto (quindi: la durata del governo e del Parlamento coincidesse con quella del rinnovo della carica di presidente della Repubblica) Draghi potrebbe rimanere presidente del Consiglio fino all’esaurimento della durata del NgEu nel 2026. Poiché ciò si avvera impossibile, resta solo da individuare la soluzione migliore per arrivare a quella data, scegliendo in modo ottimale i futuri inquilini di Palazzo Chigi e del Quirinale. La preferenza di Emmot è per l’elezione di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica, per dare un valido sostegno durante tutto il suo settennato alla piena realizzazione del Pnrr. Il viceversa, invece (ovvero: Draghi rimane a Palazzo Chigi) presenta tutta una serie di inconvenienti.

Questo perché i progressi fatti dal Governo negli ultimi dieci mesi dall’inizio del suo mandato sono dovuti, per l’essenziale, alla larga coalizione di maggioranza che lo sostiene. Tuttavia, questa condizione di non belligeranza tra i partiti politici italiani (escluso Fdi che ne è fuori) potrebbe al massimo durare altri sei mesi, con la maturazione a settembre 2022 del diritto al trattamento pensionistico per i parlamentari, di cui almeno un terzo è destinato a non trovare più posto nell’Assemblea rinnovata. Per di più, nel caso assai improbabile di un secondo mandato per Sergio Mattarella, il tempo giocherebbe contro le possibilità di Draghi di succedergli al Quirinale, essendo prevedibile che nel frattempo maturino candidature alternative. Difficile, comunque che Draghi ridivenga un semplice cittadino, a partire da febbraio 2022, nell’eventuale apertura della crisi di Governo dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Per Emmot, quello che conta veramente perché il Pnrr abbia successo è che gli investitori internazionali continuino ad avere la stessa fiducia dell’Italia che fin qui hanno dimostrato con Mario Draghi alla presidenza del Consiglio e che, di certo, si manterrà con la sua nomina al Quirinale. Posizione quest’ultima condivisa in toto dal El País del 23 dicembre. Viceversa, i pochi mesi che ancora gli resterebbero, di qui alle legislative del 2023, non sarebbero sufficienti a garantire quella trasformazione strutturale di cui l’Italia ha disperatamente bisogno. Solo se vi saranno ragionevoli prospettive di una continuità dell’azione trasformatrice dei governi che si succederanno dopo il 2023, si potrà confermare l’attuale fiducia nell’Italia degli investitori internazionali. Ecco perché, a garanzia della continuità dei processi strutturali di riforma, al Colle serve un mediatore di altissimo livello rispettato in Italia e all’estero.

Questo perché, negli ultimi trenta anni, a seguito della frammentazione dei Partiti politici, i presidenti della Repubblica hanno progressivamente abbandonato il proprio ruolo notarile, facendo ben più incisivamente ricorso al potere esclusivo di sciogliere il Parlamento e di nomina sia del Primo Ministro che dei membri del suo governo. Gli ultimi due, Napolitano e Mattarella, hanno svolto un ruolo che ha rappresentato “una via di mezzo tra il papato e l’incarico non esecutivo!”. Draghi, pertanto, come presidente della Repubblica potrebbe ben manovrare, grazie alla sua autorevolezza, per insediare un Governo fotocopia con la stessa maggioranza di oggi e un Premier di sua fiducia per arrivare al 2023, anche se sarà più difficile per lui incidere sui processi legislativi per l’approvazione delle riforme indispensabili al buon funzionamento del Pnrr e alla gestione dei finanziamenti messi a diposizione dell’Italia dal NgEu.

C’è una terza possibilità? Beh, visto tutto questo consenso nazionale e, soprattutto internazionale, convergente sulla figura di statista di Mario Draghi, allora tanto varrebbe un accordo con Bruxelles che lo tenga a Palazzo Chigi fino al 2023, per poi insediarlo come presidente della Commissione europea (degno sostituto di Angela Merkel), negli anni più cruciali di realizzazione del Pnrr italiano. Ma, il buonsenso, a quanto pare, non è moneta corrente di questi ultimi tempi.

Aggiornato il 23 dicembre 2021 alle ore 13:34