
Non sarebbe la prima volta che il capo dello Stato uscente, Sergio Mattarella, e papa Francesco si trovano sulla stessa lunghezza d’onda, ma stavolta si sono trovati a sostenere la stessa identica tesi, sia pure con parole e con riferimenti diversi. Il Santo Padre ha invitato i cristiani a farsi difensori delle loro radici religiose e culturali, senza tuttavia scadere nel tradizionalismo; analogamente, Sergio Mattarella, ha dichiarato che è un preciso dovere dell’Europa e dell’Occidente custodire la propria tradizione democratica, ma che ciò deve essere fatto evitando atteggiamenti di chiusura, di esclusione dell’altro e nel pieno rispetto dei diritti e della libertà di tutti. Quello dell’identità e delle radici è un tema che, personalmente, mi sta molto a cuore. La libertà, infatti, è anzitutto una questione di identità, di costumi e di tradizioni, come ci insegnano pensatori del calibro di Edmund Burke e David Hume. Sono proprio i valori condivisi che creano il retroterra culturale adatto a che lo spirito di libertà possa attecchire e produrre buoni frutti. Ma, soprattutto, sono le tradizioni e i costumi che ci insegnano a usare correttamente della libertà stessa; che ci informano di quali debbano essere i limiti, di carattere anzitutto etico, nel suo impiego; che ci consentono un esercizio concreto di essa. Non basta invocare un diritto naturale o un articolo della costituzione per essere liberi: si tratterebbe, infatti, di una libertà in astratto e priva di radicamento nella realtà sociale, senza punti di riferimento capaci di orientare l’agire dell’uomo. La libertà, da sola, senza nient’altro che, dal nostro interno e in maniera non coercitiva, ci guidi nel suo esercizio concreto, serve a ben poco ed è più probabile che conduca gli individui a scelte e comportamenti rovinosi, che non alla loro realizzazione esistenziale. In effetti, le tradizioni e i costumi sono, per la vita sociale, quello che i prezzi sono per la vita economica: fattori che guidano le scelte e che fungono da criteri normativi.
Detto questo, ritengo che un breve commento alle parole del Santo Padre e del presidente della Repubblica uscente sia d’uopo. Sua Santità ha ragione quando dice che bisognerebbe evitare di cadere nella tentazione “tradizionalista”, laddove con tale termine, in ambito cattolico, si suole indicare quei credenti che concepiscono la fede come qualcosa di immutabile e concluso. La fede non è un monolite, ma qualcosa di vivente, che come tale è suscettibile di adattamenti, modifiche e perfezionamenti nel corso del tempo: è soggetto a evoluzione. Immutabile è solo l’essenza, i principi primi e fondamentali della fede: ma il modo di metterli in pratica non può non risentire dello spirito del tempo e non può omettere di fare i conti con la realtà e con le circostanze concrete, della società come della vita dei singoli fedeli. Altrimenti, la fede si trasforma in un cimelio polveroso del quale i più non sanno che farsene. Tuttavia, è impossibile difendere i fondamenti culturali dell’Europa e dell’Occidente senza stabilire dei confini inviolabili. I cosiddetti “muri” – che pure il pontefice ha tante volte deprecato come segni di egoismo e di disumanità – hanno precisamente la funzione di presidiare questo spazio. I muri servono non ad escludere ma a segnare un confine e, di fatto, a mettere chi è fuori davanti a una scelta: puoi passare solo a determinate condizioni, e tra queste c’è quella di comportarti come si deve e di rispettare le leggi e i costumi del Paese al quale chiedi accoglienza; al contrario, torna pure indietro, perché non è chiaramente questo il posto giusto per te.
Ho portato l’esempio dei muri perché credo che sia tra i più efficaci. Ma potrei citare anche il “dialogo”, tanto caro al pontefice: è giusto dialogare anche con chi ha una visione della vita, della politica, della società, di Dio anche molto diversa dalla nostra; ed è vero anche che, molto spesso, è proprio dall’incontro tra le diversità di vedute o di interessi che nascono i modelli più efficienti e funzionali, che è grazie alla differenza di opinioni e allo scambio di idee che la civiltà progredisce. Ma affinché il dialogo possa essere proficuo per tutti coloro che vi partecipano, ci deve essere disponibilità all’ascolto e a mettere in discussione le proprie tesi, sulla base delle informazioni che si riceveranno dagli altri. Serve a poco dialogare con qualcuno se anche uno solo dei partecipanti al dibattito parte dal presupposto (o dalla presunzione) di essere nel giusto e di essere detentore della verità assoluta. Perché, in questo caso, il dialogo si trasforma in un tentativo di monopolizzare la discussione e di imporre le proprie opinioni agli altri. Proprio per questo continuo a sostenere – e non mi stancherò mai di farlo – che è del tutto inutile cercare di intraprendere la strada del dialogo con culture come quella islamica. Per quanto alcuni si ostinino a credere che esista un Islam “moderato” o “dialogante” (che non sia quello dei grandi centri culturali come la mosche del Cairo e dei filosofi/teologi che hanno studiato nelle università occidentali), è evidente che la quasi totalità dei musulmani non è minimamente disposta a mettersi in discussione o a fare concessioni di alcun tipo. Ed è precisamente questo che rende il dialogo con quel mondo fallimentare dal principio. Noi occidentali, al contrario, abbiamo fatto della relatività delle opinioni, dei gusti e delle credenze uno dei tratti costituitivi della nostra identità. Non dobbiamo, però, dimenticare, che ciò vale solo per coloro che sono disposti a concedere agli altri lo stesso diritto che rivendicano per sé stessi. Proprio per questo motivo, non si può intraprendere la via del dialogo con l’islam: perché ben pochi musulmani accetterebbero le “regole del gioco”; ben pochi di loro sono disposti a lasciare ai non musulmani la stessa libertà che chiedono per sé stessi.
Con questo veniamo alle dichiarazioni di Mattarella: si può davvero difendere la tradizione liberaldemocratica evitando atteggiamenti di chiusura e di esclusione nei confronti dell’altro o di indifferenza nei riguardi di quelli che sono i suoi diritti? Dipende, anzitutto, da cosa si intenda con “chiusura” e con “esclusione” e, in secondo luogo, da quali siano questi diritti che andrebbero sempre salvaguardati. Ci devono essere delle regole fondamentali che tutti sono tenuti a osservare: e tali regole vanno attinte proprio dalla nostra tradizione culturale, l’unica che possa costituire un riferimento sicuro, in quanto comprovata dall’esperienza e risultata la migliore, dati i risultati che è stata in grado di produrre in termini di avanzamento culturale, sociale, scientifico, artistico e via dicendo. Questo significa che non tutti possono essere inclusi, giacché è ragionevole pensare che non tutti saranno disposti all’osservanza di tali regole. La difesa delle istituzioni democratiche e liberali, dunque, non può essere inclusiva, o almeno non nella maniera in cui, oggi, intendiamo tale termine: può esserlo solo per chi è disposto a sottomettersi alla loro autorità. Un conto è sostenere che si debba essere aperti al contributo di ciò che integra un’identità storica e culturale, anche apportando contributi inediti e inesperiti: discorso del tutto diverso è rivendicare la necessità di ridimensionare la sua influenza per fare spazio ad altre identità o, peggio, pensare che si possa dar vita a una mescolanza amorfa.
Per quanto riguarda i diritti che, a dire di Mattarella, andrebbero sempre salvaguardati, bisognerebbe sempre ricordare che non esistono diritti assoluti: nemmeno i diritti naturali “a la Locke” possono essere intesi come tali. Questo perché, in un contesto di società, ogni diritto deve essere bilanciato coi diritti altrui, per cui l’esercizio concreto degli stessi non può non incontrare dei limiti di natura pratica. Tali limiti sono stabiliti dalla legge, ovviamente. Ma ancor più sono stabiliti dal costume, dalla tradizione politico–culturale di una comunità, dalle credenze dominanti, dal senso comune, cui la stessa legge attinge e che tiene sempre in considerazione. Di conseguenza, l’attribuzione di diritti è legata a doppio filo a ciò che viene percepito come un diritto, tra cui non figura assolutamente quello di destabilizzare le fondamenta di una società introducendo in essa elementi incompatibili col suo carattere e la sua storia.
Qual è la conclusione di questo ragionamento? Che tanto Mattarella quanto Francesco dovrebbero comprendere che la difesa delle radici o delle tradizioni di una civiltà non può prescindere da una serie di vincoli e di limiti e che, quindi, è per sua natura orientata a un atteggiamento esclusivo, poiché tende a distinguere tra ciò che è conforme a una prassi o a una visione generale da ciò che non lo è. Sospetto che il riferimento fosse al tema delle migrazioni. Se è così, è sufficiente dire che se veramente vogliamo garantire un futuro alla civiltà occidentale – vale a dire all’unica parte di mondo libero – la prima cosa da fare è respingere l’ideologia immigrazionista e multiculturalista, che sono la vera minaccia alla conservazione delle nostre radici. Il primo passo in questo senso è ristabilire due semplici principi: primo, non esiste il diritto di migrare, né il dovere di accogliere, ma solo la libera scelta, in capo a una comunità, relativamente a se e quante persone accogliere sul territorio e a che condizioni farlo; secondo, non esiste difesa coerente delle radici religiose, culturali, sociali e politiche di un popolo che possa prescindere da una politica di esclusione e di selezione relativamente a chi possa entrare a far parte della comunità, in virtù delle sue reali e concrete capacità di integrarsi e di assimilarne i valori, i costumi e le regole di vita.
Aggiornato il 21 dicembre 2021 alle ore 11:40