Questa non è inclusione

Dopo le polemiche di questi giorni sul vademecum europeo sulla comunicazione denominato “Union of Equality”, la Commissione sembrerebbe intenzionata a fare marcia indietro. Ci sono tante cose delle quali sarebbe opportuno che le istituzioni comunitarie si occupassero: dalla soluzione dell’annosa problematica dei flussi migratori, per esempio; passando per la ripresa post-pandemia; fino ad arrivare a una strategia realistica e condivisa per raggiungere una più piena e funzionale integrazione. E invece cosa fa l’Europa? Pensa a muovere un ulteriore passo verso l’autodistruzione, verso la cancellazione di se stessa, della sua tradizione millenaria, della sua identità. La “cancel culture” avanza e continua a seminare devastazione.

La parola d’ordine del documento, delle nuove linee guida della Commissione europea per la comunicazione, è “inclusione”. Si è deciso, infatti, di privilegiare un linguaggio e uno stile terminologico presuntivamente più rispettoso delle diversità e delle minoranze, affinché l’Europa sia terra di uguaglianza e pari diritti per tutti e luogo dove ciascuno possa sentirsi a suo agio. Scorrendo le pagine del documento, si trovano cose del tutto normali e auspicabili, come per esempio l’impegno, da parte dell’Unione, a non ghettizzare i disabili, così come a non emarginare nessuna particolare minoranza. Fin qui tutto condivisibile. Tuttavia, è nel capitolo dedicato alle culture, stili di vite e credenze religiose che un principio di per sé giusto, come la tolleranza di chi non condivide i nostri stessi valori e ideali, portato all’estremo e radicalizzato, finisce per risolversi in una discriminazione al contrario.

Nello specifico, in questo capitolo si raccomanda di non dare per scontato che tutti siano cristiani o che provengano da quel retaggio culturale, visto che non tutti lo sono e che, persino tra cristiani, ci sono delle divergenze dottrinali, ad esempio, ma anche sulle date delle festività. Di conseguenza, per mostrarsi sensibili al fatto che gli europei hanno tradizioni, credenze e festività differenti, le nuove linee guida raccomandano di astenersi dall'utilizzare frasi contenenti la parola “Natale”, preferendo invece termini più neutrali come “festività” o “vacanze”, e persino di utilizzare, almeno negli esempi, nomi di persona radicati nella tradizione cristiana, come Maria o Giovanni. Il testo, naturalmente, prosegue con l’introduzione del “gender neutral” nei pronomi: aboliti “signore” e “signora” (salvo che non lo richieda esplicitamente il destinatario della comunicazione), ai quali dovrà essere preferito “amici” o “colleghi”; vietato usare il pronome maschile come predefinito oppure organizzare discussioni con un solo genere rappresentato; vietato rappresentare le donne in ambito domestico; proibito rivolgersi in maniera diversa a uomini e donne (per esempio, con più riguardo e compostezza alle donne, come si è sempre usato). Insomma, una regolamentazione linguistico-comportamentale in cui non c’è spazio per i tradizionali modi di parlare e di portarsi.

Il Commissario per l’uguaglianza, Helena Dalli, ha inizialmente difeso l’adozione di questi criteri sostenendo che sia necessario offrire una comunicazione inclusiva, garantendo che tutti siano apprezzati e riconosciuti indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla religione, dall’età, dalle condizioni personali e dall’orientamento sessuale. Tuttavia – è notizia di poche ore fa – è successivamente tornata sui suoi passi, definendo il vademecumimmaturo” e “frutto di una scelta affrettata”. Perciò, la Commissione ha deciso di ritirarlo.

In qualunque società libera, la tolleranza, se portata all’eccesso e radicalizzata – come fa il politicamente corretto, che è esattamente l’esasperazione del principio di tolleranza – si trasforma in un male: vale a dire in una discriminazione al contrario, oltre che in una opprimente manipolazione/regolamentazione burocratica del linguaggio. Non ci si accorge che l’inclusione dell’altro sta rapidamente portando all’esclusione di chi dovrebbe includere e alla demolizione di tradizioni e costumi millenari.

In che modo – se è lecito chiedere – un musulmano o un ateo dovrebbe sentirsi escluso dal fatto che in Europa si festeggi il Natale e si parli liberamente della più importante festa dei Paesi di tradizione cristiana? Al contrario, proibire e censurare i nomi delle festività cristiane non è forse una discriminazione dei cristiani stessi o di chi si riconosce in questa cultura? E, soprattutto, siamo davvero sicuri che i non cristiani si sentano davvero offesi da presepi, addobbi natalizi, bigliettini di auguri e panettoni? Probabilmente, molti di loro non ci fanno neppure caso. Al contrario, è il nostro delirio egualitario, unito al terrore di urtare la sensibilità di tale o talaltra categoria, che ci porta a sposare simili risibili iniziative. Noi europei dovremmo smetterla con quest’atteggiamento e iniziare a pensare in maniera diversa: posto che tutti hanno gli stessi diritti e che tutti sono meritevoli di rispetto, il Vecchio Continente ha radici cristiane; si fonda su valori e ideali cristiani, da cui ha mutuato molti dei principi che ispirano oggigiorno la nostra società liberale e democratica; la maggior parte degli europei è di fede o di cultura cristiana; per conseguenza, il problema è tutto di chi non riesce ad accettare questo fatto, non di chi vede chiaramente la realtà e si rifiuta di rinnegare la sua storia e il suo modo di essere. Attenzione a non confondere la volontà di rispettare anche chi ha credenze religiose diverse o proviene da un differente contesto culturale con la volontà di demolire le nostre tradizioni e la nostra identità, affinché lo spazio lasciato libero possa essere occupato da altro. Un conto è portare una sedia agli ospiti: discorso diverso è dare loro le chiavi di casa nostra.

Sui nomi, poi, si sfiora davvero la farsa. Al netto del fatto che, prima ancora di essere di tradizione cristiana, nomi come Maria e Giovanni, sono di tradizione ebraica (anche l’Ebraismo, al pari del Cristianesimo, diverrà presto tabù?) e sono nomi radicati nella tradizione popolare: per questo motivo sono così tanto diffusi e per questo motivo vengono usati spesso negli esempi. Non c’è alcuna volontà di discriminare, ma solo di richiamare alla mente una persona comune e, per fare questo, si usa un nome altrettanto comune. In secondo luogo, per quale motivo dovrei rivolgermi a una platea di persone sconosciute con il termine “amici” o a un consesso di persone di posizione sociale più elevata con la parola “colleghi”? È semplicemente assurdo, giacché non posso definire “amico” una persona che non conosco o “collega” qualcuno che non fa il mio stesso lavoro, che non si occupa delle stesse cose. Per quanto attiene le parole “signore” e “signora”, chi non si riconosce nel proprio sesso, esattamente come chi non è cristiano, deve accettare il fatto che sono questi i termini coi quali ci si è sempre rivolti alle persone e che il loro uso è correlato a ciò che è visibile all’interlocutore: il dato biologico. Non si può pretendere che una persona sconosciuta o con la quale non si è in confidenza si ponga il problema se noi ci si identifichi o meno nel nostro sesso. È semplicemente assurdo.

Ancora, secondo la Commissione non si dovrebbe più dire che “il fuoco è stato la più grande scoperta dell’uomo”, ma “della specie umana”. Ebbene, suppongo che nessuno si sia posto il problema del fatto che il termine “umano” deriva comunque da “uomo” e che le parole hanno una mera funzione comunicativa, vale a dire servono a rappresentare un’idea: quella di specie in questo caso e non di genere maschile. Inoltre, per quale motivo – domandiamoci – non si dovrebbe essere più galanti con una donna? Le femministe direbbero perché ciò rimanda alla considerazione della donna come “sesso debole”, e quindi bisognoso di più cure e attenzioni. E se, invece, fosse solo una questione di portare maggior rispetto a chi si considera più degno di esso? Se volessi essere più ossequioso con una donna per il semplice fatto che ho una altissima considerazione delle donne?

Da ultimo, perché le donne non dovrebbero essere ritratte in ambito domestico? È forse sminuente essere una casalinga? Per alcuni sì, ma si tratta di un loro pregiudizio: prendersi cura della casa è un gesto d’amore nei confronti delle persone care, e quello che si offre loro non è poco. Un ambiente accogliente, pulito, ordinato e confortevole. Non c’è niente di umiliante o di svilente in questo: anzi, semmai la gloria di molte donne (e anche di qualche uomo, suvvia) è proprio quella di riuscire a conciliare il lavoro fuori casa con quello domestico.

Il dato che emerge prepotentemente da simili iniziative è il totale travisamento del principio di uguaglianza, oltre che di quello di tolleranza. Uguaglianza – almeno in una società libera – non vuol dire livellamento coatto, ma parità di trattamento di fronte alla legge. Perché solo quest’ultimo consente alla diversità di esistere e di coesistere le une con le altre. Il livellamento – al contrario – può solo distruggere le differenze tra le persone e dare vita a una società di cloni, resi tali dalla privazione dell’identità e della particolarità che ci distingue gli uni dagli altri. Ci vuole poco a lasciarsi trascinare nel baratro dall’egualitarismo radicale e ideologico che vuole distruggere la diversità in nome della diversità stessa.

La Commissaria Helena Dalli ha usato un termine corretto per descrivere il documento: “immaturo”. Sì, la pretesa di modificare il linguaggio, i comportamenti e le istituzioni in maniera costruttivista, d’autorità, è immatura, oltre che prepotente. Al contrario, bisogna confidare nella capacità delle società europee di includere e accettare le diversità – dunque di superare pregiudizi e istinti discriminatori – in maniera spontanea, attraverso un processo di maturazione, pur nella rigorosa difesa delle sue tradizioni e della sua identità. Proprio questo è il punto. Includere – che letteralmente significa “chiudere dentro” – implica l’esistenza di qualcosa, di uno spazio (reale o figurato) in cui far entrare chi è fuori: di un patrimonio di costumi e valori, in questo caso. Ergo, se l’Europa vuole essere davvero inclusiva, allora dovrebbe cominciare col rivendicare la sua storia e la sua identità, lasciando che essa si adatti alle mutate circostanze e assuma, di volta in volta, la forma più conveniente al momento storico, ma senza mai rinnegarla o pretendere di cancellarla.

Aggiornato il 01 dicembre 2021 alle ore 10:16