
Il “Popolo” è… popolare? Molte sono le simbologie e le categorie ideologiche (populismo, popolarismo, in particolare) che hanno come radice comune la Polis, tutte accomunate dalla stessa virtù: parlare a nome del popolo, vero detentore della verità e del potere politico. In realtà, fin dalla nascita delle società moderne, che si definiscano liberali, democratiche o socialiste, tutte le élite politiche che hanno sfruttato queste comuni radici lo hanno fatto esclusivamente in vista del proprio tornaconto, utilizzando di volta in volta la demagogia o il terrore (spesso entrambi) per soggiogare quella volontà popolare solo in apparenza sovrana.
Persino la democrazia rappresentativa, quella che si voleva la più equa ed equilibrata per rappresentare la volontà popolare, ha fatto anche di peggio dei sistemi precedenti, grazie alle furbesche alchimie delle leggi elettorali che, qui in Italia, sono state un vero grimaldello per neutralizzare il voto popolare a suffragio universale. Di recente, un esempio per tutti è rappresentato dai Governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I-II e Draghi infine, nati da manovre di palazzo e da accordi extraparlamentari tra leader, correnti di Partito e Quirinale che hanno confinato il Parlamento a un ruolo di ratifica di ultima istanza: ingoiare la minestra dell’accordo di Governo extraparlamentare, o saltare dalla finestra andando al massacro delle elezioni anticipate. Ed è così che il vero, ultimo epifenomeno in ordine di tempo, ovvero il successo elettorale dei pentastellati che volevano fare la rivoluzione dell’onestà da perfetti sprovveduti e demagoghi, fanatici dell’helicopter-money, si è ridotto al lumicino, decorticato prima da destra e poi da sinistra rispetto alla sua effimera identità, preso in trappola tra i due vasi di ferro della ideologia liberal-sovranista, da un lato, e di quella del politicamente corretto dall’altro.
Un Movimento Cinque Stelle, quello delle ultime elezioni amministrative, in caduta libera, svuotato del suo bacino storico arricchito in precedenza dalla rabbia delle periferie urbane abbandonate a se stesse, che non volevano né l’immigrazione dequalificata e disperata, figlia della demagogia delle sinistre Ztl (quelle che scaricano sulle periferie disastrate i problemi che non si sanno gestire, come i campi rom e i centri di accoglienza per profughi), né il cialtronismo liberal delle destre. Proprio queste ultime, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, avevano letteralmente ridotto a delle cenerentole fin dalla nascita le sterminate periferie urbane di nuovo insediamento, privandole di servizi e infrastrutture decenti. Anche a quel tempo, infatti, il potere politico nazionale e locale aveva rinunciato in modo folle e irresponsabile a qualsivoglia programmazione e regolamentazione urbana e territoriale, a favore della più sfrenata speculazione edilizia e palazzinara, favorendone l’occupazione e l’esproprio degli ex suoli agricoli suburbani.
Ai conservatori progressisti non spetterebbe forse il compito di individuare e ripetere come un mantra quotidiano dove si allocano le responsabilità storico-politiche di questo disastro epocale, magari facendo nomi e cognomi perché siano inscritti nel libro dei responsabili di delitti contro l’umanità? È irrilevante o no aver condannato alla marginalità, alla violenza e al degrado già almeno quattro generazioni di cittadini? A questo punto, come potrebbe un conservatorismo progressista coniugare il verbo popolare? Ovvero, qual è oggi la strada praticabile per restituire il potere al Popolo, suo legittimo detentore? Delle tre fasi già vissute (vedi Ezio Mauro su La Repubblica dell’8 novembre), quella dei Partiti, dei leader, e dei supplenti (Monti, Conte, Draghi) quale dovrebbe essere la quarta che segue e stabilizza questo periodo di anarchia, frustrazione e desiderio di vendetta sociale?
La strada, evidentemente, non può essere né quella della riorganizzazione territoriale (le famose Sezioni dei Partiti), né dell’etero direzione dell’Europa di Bruxelles consolidata dalla cessione di ulteriori aliquote di sovranità nazionale, da contrastare invece con la massima determinazione attraverso la messa a punto di un modulo giuridico iper-sofisticato, che tragga ispirazione dal modello della Loi-écran in vigore nella Francia degli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso. Il fulcro del ragionamento della nuova ideologia conservator-progressista, però, non può essere quella di un… Governo del Popolo, fatto da e per le élites che conducono il gioco e menano le danze. Del resto: come farebbero quaranta milioni di persone, tutti quelli che hanno, cioè, diritto di voto, a stare quotidianamente al governo del Paese? Il voto popolare, infatti, è incisivo al massimo rispetto a due componenti fondamentali: la scelta del Governo e del suo programma, da un lato, e quella delle leggi a iniziativa popolare, dall’altro. Per il primo aspetto, basta una riforma costituzionale ad hoc scegliendo tra semi presidenzialismo con premio di maggioranza, per evitare schemi deleteri, tipo l’anatra zoppa all’americana, o presidenzialismo tout-court. Per il secondo aspetto, invece, vale la pena di sfruttare le immense potenzialità della rivoluzione digitale (pec, firma elettronica) per la sottoscrizione massiva e certificata di leggi d’interesse popolare, sottoponendole poi a referendum in caso di modifica/rigetto, laddove le proposte di legge relative superino la quota di almeno un milione di sottoscrittori.
Nel caso del citato numero plebiscitario di sottoscrizioni, in particolare, il Comitato promotore va elevato a organo provvisorio di interlocuzione sia con il Parlamento che con la Corte costituzionale, la sola tecnicamente deputata, ai fini della convocazione referendaria, a riconoscere la legittimità della proposta di legge d’iniziativa popolare, in caso di un suo rigetto da parte delle Camere. Al contrario dell’approccio infantile dei proconsoli Casaleggio e Grillo, con il loro Sistema Rousseau, i conservatori progressisti possono attingere a mani basse alle filiere libero professionali, densamente popolate da molte centinaia di migliaia di professionisti iscritti ai vari Albi nazionali, che rappresentano il suo nerbo, la sua forza e il bacino inesauribile di materia grigia privilegiata. A loro si rivolgerebbe un evoluto e sofisticato Rousseau 2.0, per la formazione progressiva (che discenderà dalla partecipazione a blog specialistici di discussione-orientamento) di proposte di legge destinate ad avvalersi delle loro raffinate e massive esperienze, per minimizzare l’aliquota inevitabile di errori e approssimazioni nella formulazione delle norme di settore e generali.
In tal senso, le Università di maggiore peso nel Paese saranno chiamate a partecipare, con tutta la forza e la spinta della loro Intellighenzia, allo sforzo di elaborazione popolare delle leggi dal basso, in modo che nessuna lobby, forza o sistema di potere occulti possa incidere significativamente sull’orientamento di base, salvaguardando così la proprietà intellettuale esclusiva e popolare della norma de iure condendo. Conservare con la massima diligenza, intelligenza, costruttività e creatività deve rappresentare la parola d’ordine del conservatorismo progressista, erede diretto, se si vuole, del liberalsocialismo di matrice craxiana. Una neo-ideologia, quindi, che potrebbe ben essere sintetizzata dalla parola composita sunright: una destra conservatrice, cioè, che integri nel suo simbolo il Sol dell’Avvenire.
Aggiornato il 09 novembre 2021 alle ore 12:13