Mps-Unicredit: trattativa fallita e ipotesi nazionalizzazione

Sono trascorsi tre mesi dall’inizio delle trattative tra il ministero dell’Economia e Unicredit. Ora l’accordo tra lo Stato italiano e la banca milanese per la cessione di Monte dei Paschi di Siena (di nuovo sull’orlo del fallimento) sembrerebbe essere definitivamente sfumato. La ragione di ciò sarebbe il rifiuto, da parte dello Stato, di accettare le condizioni poste dall’Amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel: tra queste anche l’acquisto delle sole “parti buone” della banca senese, lasciando invece al pubblico i crediti deteriorati, non esigibili e scoperti, i “cocci” insomma. Dinanzi al fallimento delle trattative con Unicredit, la strada è quella di cercare un altro acquirente o, in alternativa, quella di procedere alla nazionalizzazione che è già una realtà, se consideriamo che il Tesoro detiene il sessantaquattro percento delle azioni Mps.

Quest’ultima ipotesi sembrerebbe andare per la maggiore, sebbene porrebbe dinanzi a due ulteriori problematiche. Anzitutto, questo implicherebbe il venir meno dell’impegno, preso dall’Italia con Bruxelles, di vendere Monte dei Paschi entro il 2021, prospettiva che appare sempre meno realistica. A questo proposito, il dicastero delle Finanze sarebbe intenzionato a chiedere almeno sei mesi di tempo all’Antitrust Ue. In secondo luogo, se la banca restasse invenduta, lo Stato sarebbe di fatto costretto a farsi carico dei costi di gestione e di “bonifica” della banca senese: manovra costosissima per la quale non è affatto scontato che si riescano a trovare le coperture, cosa questa che potrebbe far sorgere la necessità di andarsele a procurare con i rimedi ben noti, vale a dire ulteriore debito e aumento della tassazione. Ingiustamente si accusa Unicredit di aver “preso alla gola” il Tesoro: chi mai, potendolo evitare, rileverebbe anche i debiti di un istituto? A maggior ragione se si considera che dovrebbe pagarli di tasca propria, avendo lo Stato declinato la richiesta di coprire, almeno in parte, le spese, come si era stabilito all'inizio?

Non tardano ad arrivare le prime reazioni politiche. Il ministero si dice fiducioso di poter ottenere una proroga da Bruxelles e quindi per allungare i tempi della vendita. Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta (neo-eletto deputato proprio nel collegio di Siena-Arezzo), paradossalmente sembrerebbe gioire del fallimento della trattiva con Unicredit. Secondo il segretario Dem, infatti, si sarebbe trattato di una svendita, quando invece era necessario valorizzare il patrimonio storico di Monte dei Paschi e il suo legame col territorio: come se questo significasse qualcosa, dal punto di vista della “ragione economica”. Favorevoli alla nazionalizzazione il Movimento Cinque Stelle e la sinistra radicale, i quali sostengono che, laddove non si trovasse una soluzione di mercato entro i tempi stabiliti, l’unica possibilità sarebbe quella di un intervento pubblico per salvare i posti di lavoro. Critico, invece, il sottosegretario agli Esteri, Benedetto della Vedova (Più Europa), che mette in guardia coloro che tifavano per il fallimento della trattativa, chiarendo come la nazionalizzazione non sia sostenibile nel lungo periodo e che, quindi, l’unica soluzione realistica sia quella di mercato. Va all’attacco il segretario della Lega, Matteo Salvini, che incolpa il Partito Democratico (storicamente legato a doppio filo alla banca senese) per la perdita di soldi e posti di lavoro, pur senza proporre nulla per uscire dall’impasse.

È, tuttavia, indicativo che nessuno abbia tenuto in considerazione una terza ipotesi, che comunque esiste, sebbene non faccia comodo alla politica e non sia “popolare”: quella di lasciar affondare la nave, vale a dire di lasciar fallire l’istituto. Monte dei Paschi è, a tutti gli effetti, un peso morto e, se volessimo seguire le pure logiche di mercato – senza impelagarci in discettazioni politiche che, quando si parla di soldi, sono il più delle volte fuorvianti e utili solo a perdere di vista l’obiettivo – la scelta più razionale sarebbe proprio quella di lasciar fallire l’Istituto di credito più antico d’Italia, laddove non si trovassero compratori. Una perdita drammatica, per la nostra storia come per il nostro territorio, non c’è dubbio. Ma, forse, è una perdita necessaria. Se non altro, tale mancata considerazione dell’ipotesi più ovvia, dimostra l’idea di economia che si ha in questo Paese: uno strumento della politica per fini politici e non, come dovrebbe essere, uno spazio libero e indipendente, popolato da tanti operatori che perseguono il loro interesse in base alla legge della domanda e dell’offerta.

Difficilmente si riusciranno a trovare degli acquirenti interessati e, quand’anche si facesse avanti qualcuno, le loro condizioni verosimilmente non saranno molto diverse da quelle poste da Unicredit. Non si può pretendere di realizzare un affare vantaggioso quando quello che si sta vendendo ha poco valore. Non si può pretendere che una qualunque banca compri Mps a un valore superiore a quello di mercato, che è ovviamente molto basso, considerando le condizioni pessime dell’Istituto. Quanto alla nazionalizzazione, sarebbe un accatto peggiore della svendita, perché costringerebbe lo Stato – o, per meglio dire, i contribuenti – a tenere in piedi qualcosa che, prima o poi, dovrà comunque fallire. La nazionalizzazione, il più delle volte, è solo un modo per rimandare la soluzione di un problema, per fare in modo che siano altri a occuparsene in futuro, facendo in modo che a pagare per questo “giochetto” siano i cittadini di oggi e quelli di domani. Senza contare che non c’è ragione per cui la collettività dei contribuenti dovrebbe essere obbligata a pagare per evitare il fallimento di una realtà che solo un gruppo ristretto di persone ha interesse a che resti sul mercato. La nazionalizzazione è solo un modo per vivacchiare, esternalizzando i costi su altri.

Una banca – con buona pace di chi sostiene il contrario – è un’azienda come tutte le altre, il che significa che, quando non è più in grado di stare sul mercato, di sostenerne le dinamiche e di essere competitiva, l’unica possibilità è lasciarla fallire. E i correntisti? E gli azionisti? E i lavoratori? E l’economia del territorio? Anche depositare denaro in banca o comprarne le azioni è un investimento, una scommessa sul futuro e sulle capacità di quella banca. E come tutti gli investimenti, a volte, possono rivelarsi dannosi e determinare delle perdite per gli investitori. Non si può colpevolizzare nessuno per essersi affidati alla banca sbagliata. Quanto ai lavoratori e all’economia del territorio, non mi pare che si ponga lo stesso problema quando a fallire sono la miriade di piccole e medie imprese, che sono il vero scheletro della nostra economia. Se queste devono stare alle logiche di mercato, per quale ragione ciò non dovrebbe valere anche per le banche, le grandi compagnie o le industrie? Spiacevole, forse. Ma così funziona il mercato. Così funziona la vera economia: conti della serva a parte.

Aggiornato il 27 ottobre 2021 alle ore 09:57