Le grandi città italiane, Roma, Torino e Milano, scelgono il Partito democratico o lo riconfermano alla guida dell’amministrazione comunale, e il centrodestra subisce una sconfitta inequivocabile. La sostanza del risultato delle recenti elezioni amministrative è questa ed è inutile girarci attorno o tentare in qualche modo di edulcorarla. Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono finalmente incontrati di persona e questo è un bene, ma al centrodestra tutto serve una riflessione profonda in merito alla mancata conquista delle più importanti metropoli italiane. Occorre partire da ciò che già si conosce ovvero la designazione di candidati non proprio eccezionali e la momentanea situazione della coalizione a livello nazionale che vede Fratelli d’Italia all’opposizione e Lega e Forza Italia al Governo. Un quadro politico questo che disorienta inevitabilmente l’elettorato di centrodestra. Se l’attuale assetto nazionale non sembra destinato a mutare nel breve periodo, conviene almeno che si ragioni con attenzione su determinati errori.
La pur ottima Giorgia Meloni, leader efficace di un partito in crescita, sbaglia se pensa che il profilo dei candidati non abbia inciso in maniera negativa nella performance elettorale del centrodestra. Da un punto di vista liberale, il candidato romano Enrico Michetti si è rivelato piuttosto disarmante. Se il candidato di una coalizione di centrodestra non si distingue dagli statalisti atavici del Pd e pure del Movimento 5 Stelle per quanto riguarda la complicata situazione delle aziende municipalizzate romane, caratterizzata da inefficienze, sprechi e debiti, ma anzi, chiede addirittura una maggiore presenza pubblica, è chiaro che ad una brutta copia si preferisce sempre l’originale. Salvini, Meloni e Berlusconi hanno di che discutere in queste ore e nelle prossime settimane, ma al leader piddino Enrico Letta conviene evitare eccessivi trionfalismi. Le elezioni amministrative sono andate bene per il Partito democratico e su questo siamo d’accordo un po’ tutti, ma sul piano nazionale il Pd ha davanti a sé un futuro contrassegnato da diverse fragilità ed incertezze, forse maggiori di quelle che agitano il centrodestra.
Siamo in una fase in cui non è ancora ben chiaro se i prossimi anni della politica italiana vedranno una involuzione in senso proporzionale del quadro partitico sempre più marcata, magari con un grande centro dei fan di Mario Draghi e di questa Unione europea a fare da padrone, (l’Italia “seria” vagheggiata da Carlo Calenda), oppure registreranno il ritorno del bipolarismo, considerato il declino, in apparenza irreversibile, del M5s, il terzo incomodo. Tuttavia, il partito di Enrico Letta può avere difficoltà in entrambi gli scenari. Se dovessimo tornare ad un dominus centrista, una sorta di Democrazia cristiana adattata a questo tempo, e alla frammentazione proporzionale di tutto il resto del panorama politico, il Pd vedrebbe sepolta per sempre la propria vocazione maggioritaria. Verrebbe meno la ragione che ha costantemente accompagnato, fin dalla nascita, questo raggruppamento animato da ex-comunisti e cattolici di sinistra.
Se risorgesse invece una chiara alternanza fra centrodestra e centrosinistra il Partito democratico dovrebbe sudare qualche camicia prima di riuscire ad imbastire un’alleanza più o meno simile al vecchio Ulivo. Nell’area contigua al Pd si contano più debolezze che forze in termini elettorali. L’unico soggetto, il M5s, che fino a poco tempo fa poteva vantare un peso importante ed avrebbe potuto essere una seconda e robusta gamba di un nuovo centrosinistra, oggi è in caduta libera. Per il resto, pensiamo a Liberi e uguali, la renziana Italia viva e Azione di Calenda, vi sono piccole formazioni con percentuali di voti abbastanza contenute. Ammesso e non concesso che due primedonne come Matteo Renzi e Carlo Calenda accettino di rassegnarsi ad un destino da cespugli del Pd, pur dovendo fare inevitabilmente i conti con la potenza di fuoco, non proprio spaventosa, dei loro rispettivi partiti.
Aggiornato il 23 ottobre 2021 alle ore 10:27