
Imperversa e si fa sempre più serrata la diatriba tra l’Unione europea e l’Ungheria. Al centro del contendere ci sono la cosiddetta “legge anti-gay” – recentemente approvata dal governo di Viktor Orbán – e i fondi del Recovery Plan. La legge incriminata ha irritato non poco i vari leader europei e i vertici delle stesse istituzioni comunitarie: dietro lo scopo dichiarato di tutelare l’infanzia, infatti, si restringe la libertà d’espressione di una parte della popolazione. Il premier olandese Mark Rutte sostiene la necessità di “mettere alla porta” l’Ungheria: uno Stato che non rispetta i diritti e le libertà fondamentali non può essere membro dell’Unione. Gli fa eco il premier italiano, Mario Draghi, che invita l’Ungheria a rispettare i principi democratici e le libertà individuali. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha intimato a Orbán di ritirare la misura: in caso contrario, l’Unione aprirà una procedura d’infrazione e – qui viene il bello – potrebbe negare i sette miliardi del Recovery Plan assegnati all’Ungheria. Formalmente, la mancata consegna della somma a Budapest da parte di Bruxelles, viene giustificata in base alla “mancanza di garanzie”: il governo magiaro, infatti, non avrebbe chiarito del tutto in che modo intende investire i fondi e non avrebbe dato segni di volersi impegnare per riformare alcuni aspetti problematici della sua struttura interna, come la corruzione endemica ai vertici dello Stato, della politica e della Pubblica amministrazione, secondo le raccomandazioni dell’Unione europea.
In sostanza, però, è ovvio che subordinare gli stanziamenti al rispetto dei diritti individuali costituisca un validissimo incentivo affinché l’Ungheria rispetti le regole, che non sono solo quelle di bilancio, ma anche quelle di democrazia e di decenza politica. In Italia, Giorgia Meloni – impegnata a “corteggiare” il premier magiaro, nel tentativo di portare il suo partito, Fidesz, nella famiglia dei conservatori europei – parla di “vergognoso ricatto”: a dire della leader di Fratelli d’Italia, l’Europa starebbe usando i soldi del Recovery Plan per orientare coattivamente le scelte politiche del governo ungherese. Secondo alcuni “rumors” giornalistici, l’ostilità dell’Unione europea nei riguardi dell’Ungheria sarebbe cresciuta anche grazie ai legami sempre più solidi con l’asse russo-cinese. Ciò si evince anche dall’avvicinamento, da parte ungherese, ai modelli socio-politici e alle prassi dei suoi nuovi alleati: nel caso qualcuno non se ne fosse accorto o facesse finta di non vedere, l’Ungheria ha intrapreso una rapida e decisa marcia verso l’autoritarismo. Dalla stretta sulla libertà d’insegnamento fino alla “legge-bavaglio” nei confronti dei giornali e delle televisioni critici verso il governo; dalla legge che riduce gli spazi pubblici dei partiti d’opposizione fino alla nuova legge contro la “propaganda gay” che riproduce fedelmente quella in vigore in Russia da quasi un decennio: l’Ungheria – lungi dal difendere la sua libertà rispetto alle imposizioni di Bruxelles – diventa sempre più simile a un “satellite” russo-cinese nel cuore dell’Europa.
Potrebbe avere ragione il premier olandese Rutte nel voler cacciare l’Ungheria dall’Europa: non tanto per le sue scelte di politica interna, quanto per l’inopportunità e la pericolosità di avere un agente della Cina e della Russia all’interno delle istituzioni europee e atlantiche, un vero e proprio infiltrato in un corpo occidentale che andrebbe blindato e protetto rispetto ai suoi due maggiori e più irriducibili antagonisti. Quanto ai soldi del Recovery Plan, bisognerebbe ricordare che i sette miliardi richiesti dall’Ungheria non sono un regalo, ma sono “vincolati”, ciò significa che, per averli, bisogna indicare come spenderli e come rendere tale investimento fruttuoso riformando gli aspetti meno funzionali del proprio assetto interno. Essendo soldi di tutti i contribuenti europei (e non solo degli ungheresi, che peraltro ricevono dall’Europa quattro volte quello che danno, in barba a qualsiasi principio perequativo); ed essendo i contribuenti europei rappresentati dalle istituzioni comunitarie, l’Unione ha il diritto di richiedere delle garanzie, di subordinare il prestito all’adempimento di certi obblighi ed eventualmente di bloccarli in caso di inadempienza. L’Ungheria non è costretta a prendere questi denari: ma se vuole averli, allora deve accettare le condizioni che, legittimamente, stabilisce l’ente finanziatore.
Senza contare che, se si vuole stare in una comunità, le regole interne e le condizioni di permanenza devono essere rispettate: cosa che il governo ungherese non sta facendo. Per stare in Europa si devono accettare principi quali la democrazia, il rispetto dei diritti individuali, l’economia di mercato e simili. Al contrario, la condotta tenuta finora dall’Ungheria è stata piuttosto opportunista: ha preso i benefici e ha evitato i sacrifici derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. Ha preso tutto ciò che poteva prendere – a partire dai generosi contributi e stanziamenti che hanno permesso a un’economia estremamente debole di decollare, sia pure col “doping” dell’investimento pubblico – pur tenendo un atteggiamento spavaldo e sprezzante verso le istituzioni comunitarie. Orbán: il “salvatore della patria” coi soldi degli altri.
Non si tratta di un ricatto, come sostiene Giorgia Meloni, la quale farebbe bene a prendere le distanze da autocrati come il premier magiaro, invece di tesserne le lodi. A questo proposito, è in casi simili che nel gruppo dei conservatori europei si sente la mancanza degli inglesi: i seguaci di Margaret Thatcher non avrebbero mai pensato di mettersi a blandire un bulletto di periferia come Viktor Orbán, né lo avrebbero mai considerato uno di loro. Su questo punto, in particolare, è quantomeno singolare che proprio l’altro ieri, la leader di Fratelli d’Italia abbia trionfalmente annunciato di aver presentato una mozione in Parlamento per vincolare il governo italiano a chiedere all’Europa di non intrattenere relazioni culturali coi Paesi che criminalizzano l’omosessualità, e che solo un giorno dopo la stessa Meloni si schieri in difesa di un leader che, pur non avendo introdotto alcun reato di omosessualità, l’ha accostata alla pornografia e alla pedofilia. Sicché, vedere due uomini o due donne che si tengono per mano avrebbe, su un bambino, lo stesso effetto di un film porno o dell’incontro ravvicinato con un malintenzionato? Ci sarebbe da ridere, se non si trattasse di qualcosa che renderà la vita complicata a un gran numero di persone. La criminalizzazione può essere intesa anche in senso culturale, infatti.
È inoltre contraddittorio che una leader che – giustamente – in patria si è opposta al Ddl Zan in nome della libertà d’espressione, giustifichi l’adozione di un provvedimento non meno lesivo dello stesso diritto da parte di un suo alleato, sia pure per finalità opposte. Una coerente difesa del summenzionato principio dovrebbe spingere a schierarsi contro qualunque limite posto alla possibilità di manifestare il proprio pensiero, le proprie opinioni e i propri convincimenti: si tratti di Zan o di Orbán la sostanza non cambia. In ogni caso, l’Ungheria ha tutto il diritto di approvare le leggi che vuole, di silenziare i giornalisti e i docenti e di “flirtare” coi russi e coi cinesi: purché lo faccia coi suoi soldi – non con quelli dei contribuenti europei – e al di fuori di una comunità e di una civiltà – quella occidentale – che è il cuore dell’ordine liberale e democratico.
Aggiornato il 09 luglio 2021 alle ore 12:01