La Festa della Repubblica italiana di quest’anno ha consacrato il raggiungimento delle 75 primavere da parte delle nostre Istituzioni. Come di rito, il 2 giugno ha visto le più alte cariche dello Stato officiare le celebrazioni più importanti, pur fra qualche limite dettato dalle misure anti-Covid. Indubbiamente, festeggiare, per così dire, il compleanno della Repubblica in questo tempo ancora difficile, ma finalmente mosso da alcuni pensieri positivi, assume un significato particolare. C’è voglia di ripartire, di ricominciare dopo più di un anno di pandemia, e si guarda al passato, alle radici, per prefigurare il futuro con un sentimento di concreto ottimismo.
In occasione del 2 giugno sia il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che il premier, Mario Draghi, hanno appunto posto l’accento sulla ripartenza che, si spera, non dovrebbe più incontrare ostacoli, nemmeno all’arrivo del prossimo autunno, sulla forza della nazione di risorgere dalle macerie, sulla necessaria unità, infine, di tutti gli italiani. Tuttavia, in momenti come la Festa della Repubblica ed altri simili appuntamenti celebrativi, si tende a preferire la retorica all’amore per la verità e la realtà. Fatto salvo il sacrosanto rispetto per le nostre Forze Armate e coloro i quali hanno sacrificato la loro vita per lo Stato, se facciamo un esercizio di realismo e di buonsenso, pur auspicando, come è ovvio, il meglio per l’Italia, possiamo constatare come la nostra Repubblica, nata il 2 giugno del 1946, non goda di ottima salute.
I primi acciacchi risalgono addirittura a più di trent’anni fa, ma la politica in generale non ha voluto o potuto andare a fondo circa i mali delle Istituzioni italiane, e le patologie ignorate, ogni anno che passa, presentano un conto sempre più salato. Il primo ad accorgersi della necessità di un riassetto della Repubblica fu Bettino Craxi, insieme a liberali e missini, ma, come sappiamo, il golpe giudiziario di Tangentopoli spazzò via il leader socialista e l’equilibrio partitico di quel tempo. Durante la cosiddetta Seconda Repubblica si è parlato molto di riforme in senso presidenziale o semi-presidenziale, proprio per ovviare alla cronica instabilità di Governo inevitabilmente prodotta dalla natura parlamentare e parlamentarista del sistema repubblicano sorto nel dopoguerra. Però, e anche questo lo sappiamo bene, le tante parole e pure qualche tentativo più concreto non hanno mai cambiato la sostanza di una Repubblica in cui il presidente del Consiglio o premier che dir si voglia diventa spesso una figura debole e ricattata dalla sua stessa maggioranza, posta talvolta sotto tutela del presidente della Repubblica, all’insegna di un bizzarro presidenzialismo di fatto e non scritto.
Sono state disegnate delle coalizioni, di centrodestra e di centrosinistra, è stato usato un sistema elettorale maggioritario, vi è stata anche l’indicazione dei candidati premier sulla scheda elettorale, una sorta di elezione indiretta del capo del Governo. Tuttavia, la Repubblica italiana è essenzialmente la medesima dal 1946, e si parla di Prima, Seconda e Terza Repubblica, quella dell’arrivo di Beppe Grillo, per comodità di linguaggio e in base a semplificazioni giornalistiche. La situazione di perenne instabilità ed inefficienza dei Governi è vieppiù peggiorata nell’ultimo decennio, complici anche le varie leggi elettorali scritte con i piedi e l’indebolimento progressivo dei partiti.
Dalla caduta dell’ultimo Governo Berlusconi nel 2011 si sono susseguiti esecutivi tecnici, nominati e scarsamente rappresentativi della volontà popolare, oppure basati su alleanze forzate come quella fra la Lega e il Movimento Cinque Stelle. Senza essere fan sfegatati o detrattori della figura di Mario Draghi, si comprende come la scelta di affidare la guida del Paese all’ex-governatore della Banca centrale europea, sia stata una delle poche possibili in uno dei momenti peggiori della Storia repubblicana. Diversamente, a maggior ragione senza ricorrere ad un voto anticipato che magari avrebbe potuto migliorare il quadro politico, l’Italia sarebbe esplosa in mille rivoli.
Al fine di onorare la nostra Nazione dobbiamo dirci in faccia queste verità e non limitarci soltanto alle celebrazioni in pompa magna. Oltre al Covid e alla innegabile emergenza economica che richiede risposte immediate, non dobbiamo dimenticare l’urgenza di dare all’Italia un rinnovato assetto istituzionale nel quale chi vince, all’insegna di una più ordinata alternanza fra forze di centrodestra e forze di centrosinistra, abbia una investitura popolare tale da permettergli di governare ed incidere per la durata del mandato previsto dalla legge, senza ricatti da parte di piccole conventicole. Possiamo prendere spunto da formule diverse, presidenzialismo o premierato, ma il succo deve essere quello della efficienza delle Istituzioni e del rispetto della volontà popolare.
Certo, un conto è ciò di cui ha davvero bisogno il Paese, un altro è quanto viene offerto dalle varie proposte politiche. Se questa maggioranza di Governo, tenuta insieme più che altro dalla personalità di Mario Draghi, può servire a gestire le emergenze contingenti un po’ meglio rispetto a quanto riuscivano a fare Giuseppe Conte, Rocco Casalino e Domenico Arcuri, essa non è certo la più adatta per affrontare sfide enormi come le riforme istituzionali e costituzionali. Matteo Salvini ha ragione quando dice che con il Partito Democratico e il M5S è quasi impossibile tentare di riformare la giustizia e il fisco. Figurarsi provare a delineare con grillini e piddini i contorni di una assemblea costituente per una nuova Repubblica. Ma il centrodestra tutto, visto che esso si è rivelato storicamente più sensibile al tema rispetto alla sinistra, oltre a non scordare di dover tornare unito alla conclusione dell’esperienza Draghi, lavori in prospettiva, soprattutto se il consenso previsto dai sondaggi si tramuterà in una vera vittoria, per la modernizzazione delle quasi ottantenni Istituzioni repubblicane.
Aggiornato il 04 giugno 2021 alle ore 11:04