
Negli ultimi giorni abbiamo assistito al susseguirsi delle polemiche, all’interno dell’Esecutivo di Mario Draghi, sulla spinosa questione del blocco dei licenziamenti. La sinistra – sempre solerte nel proporre politiche il più possibile anti-economiche e penalizzanti per la libertà d’impresa – avrebbe voluto una sua proroga. D’altro canto, la destra – che teoricamente dovrebbe prestare maggior attenzione a quest’aspetto della vita economica, ma praticamente finisce quasi sempre per arrendersi alle rivendicazioni e ai ricatti morali dei sindacati – si è opposta, chiedendone invece (Matteo Salvini primo fra tutti) una revisione o un allentamento. Alla fine, si è deciso di mantenere tale normativa in vigore fino al 30 giugno, trascorso il quale per le imprese sarà di nuovo possibile licenziare i propri dipendenti. E si prevede che in molti lo faranno, a causa del pesante ribasso della domanda nel periodo della pandemia, indotto peraltro dalle stesse politiche governative volte a tutelare la salute pubblica.
Sono in molti a sostenere che dietro la decisione del Governo vi siano le pressioni di Confindustria, che sin da subito ha rifiutato in maniera categorica qualunque ipotesi di prorogare un provvedimento tanto inviso agli imprenditori. Come era prevedibile, i sindacati hanno dissotterrato l’ascia di guerra. Le varie sigle hanno giudicato del tutto insufficiente il mantenimento della misura fino alla fine di questo mese promettendo battaglia: o si riapre il confronto e il Governo trova un’alternativa, oppure ci saranno scioperi e mobilitazioni in tutto il Paese, hanno dichiarato i leader sindacali a una sola voce. Alcuni di loro hanno addirittura proposto di aumentare i sostegni in favore di coloro che perderanno il lavoro, se il blocco dei licenziamenti non dovesse essere prorogato. Anzitutto, qualcuno dovrebbe consigliare ai sindacalisti di smetterla di vedere le cose in maniera ideologica e soprattutto di aprire qualche buon libro di economia (di quella seria però) per capire come funzionano i mercati, per cogliere gli “impenetrabili misteri” della legge della domanda e dell’offerta.
Nel momento in cui cala la domanda di un certo bene o servizio – a causa di una crisi come quella che stiamo vivendo attualmente – è inevitabile che, assieme ad essa, cali anche la produzione o l’erogazione di quello stesso bene o servizio e, di conseguenza, il bisogno di manodopera o di personale necessari a produrlo o ad erogarlo. Ne consegue che i licenziamenti sono un effetto del tutto naturale del calo della domanda. La pandemia – e soprattutto i lockdown – hanno modificato profondamente le scelte degli operatori economici: nei momenti di crisi si tende al risparmio a causa dell’incertezza per il futuro; il confinamento domiciliare ha impedito alle persone di uscire e di lavorare e, quindi, ha ridotto di molto la loro possibilità e capacità d’acquisto. Lo stesso paniere dei consumatori è notevolmente cambiato rispetto al pre-pandemia. Questi sono tutti fattori che hanno contribuito al ribasso della domanda in alcuni comparti economici, per cui molti lavoratori in molte imprese sono diventati superflui. Sicuramente triste, ma è la realtà.
Ora, salvo che non vi siano – e di ciò non dubito – coloro che pensano di sopperire alla carenza di domanda con investimenti pubblici – la qual cosa sarebbe semplicemente ridicola, giacché si costringerebbero le persone ad acquistare indirettamente, attraverso la tassazione o il debito, gli stessi beni che non hanno acquistato direttamente – è ovvio che la soluzione non è rimandare l’inevitabile, come si è fatto finora. Trattandosi di una misura emergenziale, non può essere protratta ad oltranza. Prima o poi si dovrà tornare alla normalità. E quando questo succederà ci sarà la tanto temuta “carneficina sociale”, dal momento che tutti i lavoratori dei quali si è impedito il licenziamento graduale, proporzionale al progressivo calo della domanda, perderanno il lavoro in blocco.
I sindacati, nella loro smania di difendere i posti di lavoro dalle dinamiche di mercato e nella loro palese ignoranza delle basi dell’economia hanno finito per tramutare in realtà quello che era il loro peggior incubo. Non parliamo poi dell’idea balzana di aumentare i sostegni a coloro che perdono il lavoro. Erogare sussidi può solo peggiorare la situazione, dato il loro effetto disincentivante sulla ricerca di lavoro da parte di disoccupati – sono proprio di oggi i dati che ci informano di come gli ex lavoratori di alcuni settori, come la ristorazione o l’agricoltura, preferiscono restare disoccupati e percepire gli aiuti statali anziché tornare al lavoro, essendo il sussidio più alto o uguale al salario – determinando così un ulteriore rialzo dei livelli salariali (se la manodopera scarseggia le retribuzioni tendono ad alzarsi) che difficilmente imprenditori tanto provati dalla pandemia potrebbero sostenere.
Tanta miopia siamo abituati ad aspettarcela dai sindacalisti e dalla sinistra, nemici giurati della libertà economica e sostenitori di un modello dove pochi onesti lavorano (e vengono uccisi di tasse) e la moltitudine vive alle loro spalle, con la complicità di uno Stato che vede la redistribuzione come concretizzazione del principio di solidarietà, quando invece, in molti casi, non è che la concretizzazione del vizio del parassitismo.
Fa specie, tuttavia, pensare che anche Matteo Salvini si sia detto pronto a dialogare con la sinistra di Enrico Letta su questo punto, con una palese inversione di marcia rispetto alla prima presa di posizione. La destra non dovrebbe difendere la libertà economica, il libero mercato e la proprietà privata? E non dovrebbe difendere i lavoratori dalle crisi occupazionali indotte più dalle manipolazioni del mercato che non dal mercato stesso lasciato libero di funzionare?
Aggiornato il 04 giugno 2021 alle ore 10:18