
Da The Economist del 20 marzo 2021 (“Dealing with China”): “Nei confronti dell’ascesa della Cina come potenza planetaria il mondo libero è tenuto a rispondere alla domanda epocale di come possa fare del suo meglio per contenere il gigante asiatico; assicurare prosperità; minimizzare i rischi di un conflitto armato e proteggere la libertà”
La modalità con cui è avvenuta la rifeudalizzazione di Hong Kong (ovvero, la cancellazione del suo status di provincia autonoma dotata di un modello originale di democrazia avanzata) è il metro di misura della determinazione con cui la Cina intende affermare la sua volontà su tutto ciò che attenga agli affari interni e al proprio interesse nazionale, condiviso dai banchieri dell’isola che chiedono maggior sicurezza e protezione dalle proteste di piazza. Del resto, quale importanza hanno per la Cina 7,5 milioni di hongkonghesi a fronte degli interessi “imperiali” del suo miliardo e mezzo di cittadini? Dopo aver smantellato qualsiasi forma di opposizione democratica a Hong Kong, i nuovi padroni cinesi hanno posto sotto controllo il potere giudiziario e ridotto de iure della metà il numero di parlamentari eletti con voto popolare (che passa dal 50 al 25percento), purché i candidati diano adeguata prova di patriottismo nei confronti della Madrepatria comunista.
Ci si sarebbe aspettati che la fine del sistema liberale nel cuore finanziario dell’Asia (che registra flussi di investimento infracontinentali pari a 10 trilioni di dollari!) avrebbe scatenato il panico sui mercati internazionali, con imponenti fughe di capitali e di investitori dall’isola, mentre è accaduto l’esatto contrario! Nella Borsa di Hong Kong (il cui dollaro locale è convertibile con il suo omologo americano, il che consente alle imprese cinesi di avere accesso alle più importanti concentrazioni di capitali del mondo!) l’offerta di investimenti azionari da parte delle grandi società cinesi quotate (Tencent, Alibaba, Meituan, Xiaomi) ha incontrato l’entusiasmo incondizionato di 2mila fondi pensione cinesi e di grandi sottoscrittori mondiali, come Morgan Stanley e Goldman Sachs, facendo lievitare a 11 trilioni l’ammontare dei pagamenti in dollari!
Questo dimostra, in fondo, quanto poco il denaro – per il denaro – abbia a cuore i valori liberaldemocratici! Infatti, malgrado che il regime comunista cinese si sia dimostrato più determinato che mai a perseguire la violazione dei diritti umani (vedi la questione degli Uiguri), a condurre una guerra cibernetica a tutto campo, a intimidire Paesi vicini esasperando il culto della personalità del Leader, multinazionali come Siemens, Apple, Starbucks si sono accomodati su queste realtà sgradevoli, letteralmente ignorandole.
Tant’è vero che l’apertura ai capitali stranieri ha fruttato alla Cina qualcosa come 900 miliardi di dollari in investimenti esteri e, soltanto nel 2020, ulteriori 163 miliardi di nuovi investimenti da parte di multinazionali occidentali! Del resto, un simile comportamento è compatibile con l’estremo interesse all’innovazione dei propri prodotti da parte delle grandi imprese americane e occidentali, che possono scoprire così in anteprima le tendenze di centinaia di milioni di consumatori cinesi, visto che la Cina rappresenta il 18 per cento del Pil mondiale! Con la dittatura illuminata (si fa per dire) di Xi Jinping, dalla Fine della storia di Francis Fukuyama (falsa profezia ispirata alla evaporazione quasi istantanea dell’Urss nel 1991 e alla susseguente vittoria planetaria delle democrazie liberali) siamo passati a una riedizione sotto altre forme della Guerra Fredda di allora, che segnò ideologicamente e materialmente i confini invalicabili tra i due massimi contendenti mondiali del comunismo sovietico e del liberalismo all’occidentale. Soltanto che, nel caso della Cina, le premesse per erigere una nuova Cortina di Ferro nei suoi confronti si pongono in maniera diametralmente opposta rispetto a quelle di allora. Ieri, Europa dell’Est e Occidente non avevano la benché minima interdipendenza dal punto di vista dell’economia globale, risultando di fatto sistemi socio-economici chiusi e non comunicanti tra di loro, caratterizzati da scambi commerciali ridotti all'essenziale, a causa di una barriera impenetrabile di dazi.
Oggi, è del tutto impossibile realizzare anche in minima parte una efficace compartimentazione tra Occidente e Cina, a meno di essere disposti a rimettere in discussione il benessere attuale, che vede le economie cinesi e occidentali fortemente interdipendenti e interconnesse. Se decoupling ci dovesse essere (come per molti versi ci sarà, con il ripristino progressivo delle produzioni strategiche facendo leva su meccanismi di re-localizzazione, politicamente e industrialmente pianificati con cura), il tutto avverrà senza rotture improvvise, né battaglie militari epocali per la conquista di nuovi mercati, come successe nel XIX secolo. Un radicale disimpegno dell’Occidente dal mercato cinese (il peso attuale della Cina nel commercio mondiale è pari a tre volte quello dell’Urss del 1959!) avrebbe costi molto rilevanti, compresa una forte risalita dei prezzi al consumo, dato che la manifattura cinese è pari al 22 per cento di quella globale. Il che varrebbe anche la pena se solo si fosse certi che un embargo generalizzato da parte dell’Occidente condurrebbe alla caduta del Partito Comunista cinese. Allo stato attuale delle cose, ci potrebbe essere al contrario un effetto-boomerang, dato che la Cina è il più grande esportatore per 64 Paesi, contro i 38 dell’America.
Mentre l’ex Urss poteva vantare sulla sola risorsa petrolifera per l’esportazione, la Cina, intrisa di self-confidence nazionalista (per cui il suo presidente a vita dichiara pubblicamente che “l’Est è in ascesa mentre l'Occidente declina”), è un Paese molto più grande, diverso e innovativo, capace di adottare una valuta digitale in grado di sfidare il dollaro nei pagamenti mondiali. Del resto, finora, il modello tecno-autoritario del capitalismo di Stato praticato da Xi Jinping non si è dovuto confrontare come è avvenuto in Occidente (esclusivamente per colpe di quest’ultimo!) con la concatenazione di crisi, che vanno dal crollo di Wall Street del 2008 all’attuale catastrofe della gestione del Covid-19. Né dall’isolamento del gigante asiatico verrebbe fuori un rafforzamento dei diritti umani, in quanto avrebbe effetti irrilevanti sui comportamenti autocratici del regime comunista.
In generale, per il mantenimento della pace è buona regola aumentare notevolmente i costi di un’aggressione militare da parte dell’avversario planetario, rafforzando coalizioni come il “Quad” tra Usa, India, Giappone e Australia e consolidando il più possibile le vecchie alleanze transatlantiche. Insomma, l’Europa dovrebbe guardare molto meno per il futuro a Pechino e molto di più a Washington, rinsaldando il più possibile i legami con la Russia del dopo-Putin.
Aggiornato il 24 marzo 2021 alle ore 11:58