
Il governo di Mario Draghi sembra aver dato l’incipit alla conversione della Lega “sulla via di Damasco”: un esecutivo decisamente europeista come quello dell’ex governatore della Banca centrale europea non poteva certo accogliere al suo interno, né accettare il sostegno, di una forza euroscettica e con vaghe tendenze nazionaliste, quale la Lega degli ultimi anni è stata. In questo senso, si è parlato della “svolta europeista” di Matteo Salvini e del suo partito. Non si tratta solo dell’appoggio al nascente governo di Mario Draghi al fianco di Forza Italia e in opposizione a Fratelli d’Italia, che in questa circostanza ha dimostrato di essere la vera forza estremista dell’emiciclo parlamentare italiano (altra roba rispetto alla “famiglia dei conservatori europei” cui Giorgia Meloni si vanta di appartenere). Si tratta anche e soprattutto della nuova collocazione in ambito europeo che, a quanto si dice (complici le pressioni dell’ala “moderata” del partito, guidata dal neo-ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti), Salvini starebbe caldeggiando: non più alleato delle forze nazionaliste e reazionarie guidate da Marine Le Pen, ma del Partito Popolare europeo di Manfred Weber.
C’è già chi parla di “voltafaccia”, addirittura di “tradimento”. Niente di tutto questo: piaccia o no, Salvini (come Silvio Berlusconi e diversamente dalla Meloni) non è un idealista, ma un pragmatico. Per lui i principi contano, ma fin quando portano a dei risultati. Nel momento in cui un principio smette di essere utile e funzionale allo scopo va semplicemente rivisto, rendendolo più idoneo al conseguimento del fine. Salvini ha capito benissimo tre cose fondamentali: primo, che la breve era del sovranismo “duro e puro”, della retorica nazionalista e degli slogan urlati è finita; secondo, che l’unico modo per difendere efficacemente gli interessi nazionali è stare in Europa e cercare, al suo interno, di avere un ruolo da protagonista, e che per avere un ruolo da protagonista è necessario dialogare ed accattivarsi le simpatie di “quelli che contano”, vale a dire dei tedeschi; terzo, che qualunque forza politica che voglia davvero governare (e non accontentarsi di strepitare all’opposizione senza mai prendersi la responsabilità derivante dal guidare un esecutivo e dal fare delle scelte) sa che è impossibile farlo avendo contro l’Unione europea.
Nessuno in Europa difende meglio i propri interessi dei tedeschi, degli olandesi o dei francesi: non a caso, tutti strenui difensori dell’Unione, tutti europeisti convinti. Proprio perché il luogo migliore dove far valere seriamente i propri interessi è in sede europea, dove si prendono davvero le decisioni cruciali per il futuro di tutti. C’è dunque da augurarsi non solo che la Lega porti a termine questa sua “transizione” in senso europeista, ma che tale processo si completi in una assimilazione dei valori e dei principi della tradizione liberale. I presupposti ci sono: dalla “flat tax” alla volontà di rappresentare la borghesia imprenditoriale del Nord; dalla difesa della libertà d’espressione fino alla semplificazione normativa e burocratica per rendere l’Italia un Paese “a misura di mercato”. Quello che manca è la chiarezza: non ha senso proporre l’abbassamento delle tasse e al tempo stesso pensare di far ripartire la nostra economia con gli investimenti pubblici. È contraddittorio rivendicare la libertà di lavorare, investire e produrre, e al tempo stesso pensare che il “rigore” nella gestione dei conti pubblici sia qualcosa di negativo, che frena la ripresa invece di favorirla, dal momento che avere un bilancio in ordine è la prima condizione per un Paese che voglia essere economicamente dinamico e vivibile per coloro che fanno impresa, per il ceto produttivo. Così come è assurdo pensare di rivendicare le libertà economiche senza riconoscere la stessa importanza alle libertà civili.
“Dai loro frutti li riconoscerete” dice il Vangelo. Per ora abbiamo solo dei timidi segnali di una “conversione” della Lega: aspettiamo il resto. Ne avremo la prova solo quando assisteremo all’allontanamento e alla graduale marginalizzazione degli elementi radicali come Claudio Borghi, Alberto Bagnai, Antonio Maria Rinaldi e di tutta la pletora di “economisti” convinta che la soluzione ai mali economici del nostro tempo consista nel riprendere le tristemente famose ricette keynesiane, a base di spesa pubblica fuori controllo e politiche monetarie inflazioniste, applicate nel secolo scorso e i cui risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. Potremo parlarne propriamente solo quando vedremo la Lega disconoscere il fondamentalismo di Lorenzo Fontana, Simone Pillon e dei vari “teo-con” e procedere – proprio come fatto da tutte le destre liberali, europeiste e popolari d’Europa – ad una profonda revisione delle sue posizioni sui diritti e le libertà individuali. Non si tratterebbe propriamente di una “svolta”, ma più che altro di un “ritorno alle origini”, considerando che la Lega nacque europeista, autonomista e con interessanti sfumature libertarie: tutte caratteristiche perse strada facendo e definitivamente ripudiate negli ultimi anni. Che sia la volta buona per riprendere la “vecchia via”, considerando che quella nuova non ha portato ad alcun risultato significativo e che, in termini di federalismo e immigrazione, per esempio, ottenne molto di più la “vecchia Lega” di quanto non abbia fatto quella del “nuovo corso” intrapreso nell’ultimo quinquennio.
Aggiornato il 26 febbraio 2021 alle ore 08:39