
Il Grillo, rotola o salta? Dipende. Se fa il… morto a galla probabilmente sarà perché qualcuno lo avrà fatto rotolare dall’alto della rupe. Mandante e killer, in tal caso, non sono la stessa persona. Questa dei grillini non è una storia per bambini, ma forse nemmeno per grandicelli. Se davvero il Lupo Matteo Salvini si è calato la cuffietta della nonna sulla fronte pelosa (copyright Francesco Merlo), per poi mettere a tavola un magro piatto di grilli, sarebbe fare un gran torto alla sua intelligenza e a quelli che l’hanno plebiscitato con più di nove milioni di voti (34,3 per cento su base nazionale, calcolato con il proporzionale puro!) alle elezioni europee del 2019. Non ci voleva l’eminenza grigia di Giancarlo Giorgetti per capire che molti di quei voti non chiedevano meno Europa ma, semmai, l’esatto contrario. Mancava solo l’occasione buona per dirlo, facendo una “u-turn” (virata a 180 gradi) epocale, affidando la rischiosissima manovra nelle mani di un timoniere abile come l’attuale presidente del Consiglio incaricato, Mario Draghi. È lì, a quel punto, che è rotolato giù l’Armando: pardon, il Beppe (Grillo). Questo perché la madre dei gattini (commentatori politici) di casa nostra è sempre un po’ troppo frettolosa nei suoi parti di analisi politica alla Sora Cesira: più chiacchiere da cortile, che vera competenza; incapace nel suo complesso di nutrire alcun sentimento costruttivo per il bene del Paese. Le anime belle urlanti nel deserto della conoscenza e dell’onestà (che è come la Bella di Siviglia, ognun l’ama ma nessuno se la piglia) hanno dimenticato che, essendo un voto una testa, è verosimile che le teste, messe dentro un enorme calderone con la stessa etichetta, continuino a pensare in modo diverso tra di loro.
Meglio quindi precisare il problema. Se, oggi, al mercato dei sondaggi (cibo per i talk e sabbia negli occhi per i suoi spettatori) la Lega di Salvini vale circa dieci punti percentuali in meno rispetto ai risultati veri del 2019, una ragione profonda ci dovrà pur essere, fatta la tara per il mantra dell’immigrazione. Poiché, infatti, sempre nel 2019, secondo un sacrosanto principio dei vasi comunicanti, il M5S era sceso di circa sedici punti percentuali, un ragionamento più oggettivo porterebbe a concludere che gran parte della spinta sovran-populista avesse abbandonato un Movimento diventato fin troppo governativo (tanto da indossare di lì a poco il doppiopetto giudaico, inamidato di fresco, della maggioranza Ursula) per scegliere il concorrente leghista più affine e combattivo, sotto questo punto di vista. Allora, come hanno fatto notare in molti, era proprio la Lega di Salvini a essere il riferimento, il porto sicuro di approdo (una sorta di Cavallo di Troia fatto scivolare nottetempo nel recinto fortificato dell’Unione europea) dei principali leader mondiali del sovranismo, come Vladimir Putin e Donald Trump. Delegittimati l’uno e l’altro, per colpe esclusivamente di questi ultimi; caduto il pilastro demagogico dell’Europa matrigna, a causa delle gigantesche risorse messe a disposizione da Bruxelles a beneficio dei Paesi mediterranei maggiormente colpiti dalla devastante crisi pandemica (uguale per tutti e, perciò, senza più responsabilità politiche da fustigare e condannare all’Austerity), la Lega si è trovata disarcionata e mutilata dai suoi argomenti privilegiati dell’antieuropeismo puro e duro.
Tanto più che, con l’ultimo governo giallorosso, la metà di sinistra della testa originaria del Movimento si è definitivamente distaccata dalla sua gemella antagonista di destra, dopo che le due erano state temporaneamente messe assieme dall’addensante della protesta antisistema, in corrispondenza delle elezioni del 2013 (dove in streaming venne messo alla gogna il povero Pier Luigi Bersani) e del 2018, quando Matteo Renzi gridò: “Grillo esci da questo blog!”. Quelli tra elettori e iscritti rimasti ancora nel Movimento si sono poi ulteriormente divisi tra puristi della prima ora e governisti a tutti i costi. L’ultima conta su Draghi li ha ripartiti quasi a pari merito, il che porterebbe alla seguente morale della favola dello scorpione rosso che cavalca la grassa e grossa rana gialla: una futura alleanza elettorale con il Partito Democratico di ciò che resta del Movimento dovrebbe apportare, in numeri bruti, un valore aggiunto dell’8 per cento (che può arrivare massimo al 15 per cento, qualora Giuseppe Conte ne dovesse essere l’alfiere), mentre la parte nostalgica prima maniera, che vale uno scarso 5 per cento, si ricompatterebbe dietro il “Che” de’ noantri, Alessandro Di Battista, con l’ottima compagnia di Gianluigi Paragone, Elio Lannutti e Barbara Lezzi. Successo assicurato!
La Lega salviniana ha fatto, dunque, Ribaltone o si è semplicemente ribaltata? Fatti quattro rapidi conti nell’immediato, a partire dalla comunicazione della lista dei ministri del Governo Draghi, due cose emergono con grandissima evidenza: la lista sembra aver messo assieme il diavolo con l’acqua santa. Nitroglicerina pura? O un semplice ring dove tutti se le suoneranno di santa ragione dando di se stessi il solito indecente spettacolo, mentre il Manovratore sistemerà dietro le quinte tutti i grandi affari che contano? Non c’è ragione di supporre il contrario, in effetti. Mentre tutti straparlano del bilancino con cui sono stati distribuiti i posti ministeriali tra dicasteri con o senza portafoglio, soprattutto per la parte politica consociativa, emerge (come notato da più parti) un’assenza clamorosa: il ministero senza portafoglio degli Affari europei. Questo vuol dire che sarà proprio Mario Draghi in prima persona a occuparsi delle cose più importanti, con il supporto di alcuni supertecnici nei ministeri chiave, quali: la predisposizione del Recovery plan italiano e la successiva gestione dei fondi del Next generation Eu; il rapporto con Bruxelles e Francoforte (Commissione e Banca centrale europea) e con l’Amministrazione di Joe Biden e il suo ministro del Tesoro Usa, Janet Yellen. “Giggino” Di Maio confermato agli Esteri? Difficile immaginarlo, alla prossima riunione del G20, prendere la parola in inglese in presenza di Mario Draghi. E nemmeno a Bruxelles, dato che la Ue si è già dotata da tempo di un Alto rappresentante per la politica estera.
Aggiornato il 16 febbraio 2021 alle ore 09:29