
Qual è la vera natura del Potere? Risposta: la capacità di decidere. Quindi, l’esercizio del Potere in democrazia, al contrario dei regimi illiberali o totalitari, si distingue per l’entità dello spazio riservato alla pubblicità del confronto e della discussione nelle fasi preliminari alla decisione. E quand’è che si inceppa il meccanismo, nel caso delle democrazie liberali? Semplice: quando la decisione è inflazionata da un eccessivo allargamento della platea degli stakeholders, coloro cioè che hanno diritto a partecipare alle discussioni preliminari e che, poi, daranno mandato a un potere legittimamente preposto di procedere all’esecuzione delle decisioni concertate, alla fine di un processo sempre complesso di consultazioni e di mediazioni (palesi o a carattere informale, ovvero riservato se non segreto). Come si è visto nella stragrande maggioranza dei casi, in questo nostro modello di democrazia rappresentativa rarissimamente prevale l’interesse generale al di sopra delle parti. Al contrario, l’esigenza di chiudere il cerchio della discussione, perenne e conflittuale, porta all’individuazione di decisioni mai ottimali, in quanto rappresentano quasi sempre una faticosa soluzione di compromesso, non di rado del tutto insoddisfacente, che giunge al termine di un gioco infinito di veti reciproci e incrociati, dove gli attori interessati procedono a individuare un accordo tra di loro secondo un moto disordinato.
Per di più, la relativa esecuzione comporta in genere un rilevante spreco di risorse, dato che il sistema è costretto ad ampliare quanto più possibile i soggetti beneficiari portatori di interessi particolari o settoriali. In Italia, l’ultima crisi di Governo è un libro mastro di questo intollerabile deficit di decisionismo, che caratterizza la vita interna dell’attuale sistema di democrazia rappresentativa, in cui persino il Parlamento si atteggia nella sostanza a… foro boario! Un sistema così compromesso, caratterizzato da un intollerabile deficit democratico (nessuna decisione può, con i meccanismi esistenti, provenire dal basso, in quanto i “Poteri forti” si presentano del tutto impersonali, privi come sono a livello planetario di un locus e di un Palazzo!), provoca l’emergere come suo diretto contrappeso dell’esigenza di avere un Uomo forte al comando. Qualcuno, cioè, che rappresenti l’identità nazionale e sia dotato di pieni o sufficienti poteri per mettere a tacere il pollaio (ma più spesso il verminaio delle infinite corruzioni e ricatti) degli innumerevoli stakeholders. Una personalità carismatica, quindi, capace di indirizzare le risorse umane, economiche e produttive verso un risultato concreto e tangibile: una grande infrastruttura, una riforma di sistema, una politica estera ben definita, con alleanze strategiche nelle aree nevralgiche che interessano la nostra sopravvivenza di Nazione. Non è da escludere che la versione originale e segreta di Matteo Renzi prima maniera intendesse avere proprio questa caratura, pur sempre in tono minore rispetto alla mai dimenticata leadership craxiana, che possedeva una sua forte connotazione ideale e ideologica, lontana anni luce dal pensiero ultraleggero delle formazioni politiche contemporanee.
Quindi, la vera pietra di paragone tra un sistema capital-comunista come quello cinese, da un lato, e quello di Giuseppe Conte e del (marcio?) parlamentarismo italiano dall’altro, è misurata proprio dalla capacità, o dall’incapacità, di formulare grandi progetti concreti e di realizzare con rapidità le riforme di sistema, come quelle pregiudiziali al Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Al contrario dei Paesi europei, la Cina di Xi Jinping, così come la vede il grande analista internazionale Fred Kaplan nel suo editoriale apparso su Wall Street Journal del 20 gennaio scorso, è un’entità che ha un “pensiero organico sulla geografia”, in quanto riconosce come, in un mondo divenuto molto più piccolo e interconnesso, le varie regioni e continenti siano in qualche modo obbligati a lavorare assieme e “a fluire gli uni negli altri”. In buona sostanza, i cinesi sanno che i grandi tracciati stradali, ferroviari e portuali che stanno dietro al loro megaprogetto a cavallo di più continenti, denominato Belt & Road Initiative, darà loro un potere globale determinante in Europa, nell’Asia dell’Est e in Africa dell’Est. Pechino (politicamente) non sceglie da che parte stare, potendo indifferentemente lavorare (come sta già facendo) con Iran, Israele e Arabia Saudita. Piuttosto che promuovere una visione qualunque, o quella liberale, come ha da sempre fatto l’America, i cinesi restano cinicamente una società mercantile e imperiale nel loro approccio con il resto del mondo, essendo unicamente interessati a fare soldi e a rendere sempre più grandi ed efficienti le grandi infrastrutture per il trasporto di beni. Insomma, “la geografia classica adattata al mondo della post-modernità”.
Come fare concorrenza, quindi, a un monstrum di questo tipo? Sostituendo il monoblocco del Moloch del Partito unico, e del suo presidente a vita con pieni poteri, con un altro monolite, che in un sistema democratico potrebbe funzionare come segue. Occorre individuare un…Mastro d’opera, cui affidare le rilevanti risorse per la loro realizzazione e con una durata del mandato commisurata al grande, o ai grandi, progetti da realizzare, poiché i mega-progetti “fisici” d’interesse intergenerazionale (da eseguire, cioè, nei tempi medio-lunghi) non possono essere minimamente gestiti da governi transeunti, anche della durata di una legislatura. È chiaro come una simile figura debba essere individuata e designata con una maggioranza parlamentare qualificata in entrambe le Camere, dotandola di un modus operandi equiparabile in buona sostanza a quello di un “Ceo” (Chief executive officer) di una impresa multinazionale, con rendicontazione contabile e audit indipendenti, al pari di una grande spa quotata nelle borse internazionali, e che abbia nel suo board, ad esempio, un Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) completamente rinnovato e ristrutturato, con funzione di garante e di controllo rispetto alla corretta esecuzione dei progetti. Pertanto, la Lampada di Aladino della democrazia del futuro è di far evolvere i suoi strumenti decisionali monocratici in senso “forte”, per guardare molto lontano, nell’interesse delle generazioni che verranno.
Aggiornato il 01 febbraio 2021 alle ore 11:07