
Non v’è dubbio che l’azione dell’attuale Autorità governante, per lo più disarticolata, inadeguata, incoerente, quando non proprio scellerata e in malafede, ma che in prosieguo si procederà comunque a tratteggiare in modo più strutturato, viene a porsi su un asse di continuità che si dipana dal processo risorgimentale e unitario sino ai giorni nostri, un momento storico questo in atto di tale drammaticità pari quantomeno a quella dei periodi più cupi della recente storia del nostro Paese. S’impone, pertanto, innanzitutto un approccio metodologico che, su un asse cronocentrico di continuità fattuale degli accadimenti occorsi in poco più di un secolo e mezzo a questa parte, sia in grado di pervenire non già ad astratte formulazioni atemporali o accidentali, bensì ad un corretto diagramma interpretativo della fosca realtà del momento, dato che la Storia non è assimilabile ad un “sistema modulare”, in cui ogni “blocco” possa essere suscettibile di isolata ed algida analisi, ma si presenta come un unicum, un susseguirsi di eventi di rilevanza storica organicamente interconnessi nella loro dimensione temporale, una consecutio temporum non certo descrittiva ma essenzialmente interpretativa, che possa quindi costituire una sorta di convincente ossatura della contemporaneità.
A voler partire, dunque, dal Risorgimento, senza nulla togliere alla sua grandiosità ai fini del conseguimento dell’indipendenza e dell’unità della nazione italiana, v’è che alcune sue difettosità – come suggerisce il professor Angelo De Luca in una sua prefazione – si riverberano sui fatti storici successivi, che si snodano secondo percorsi tortuosi e di certo inidonei a completare siffatta unità. Dapprima, la pesante e definitiva sconfitta di Novara, nel marzo 1849, subita dal Re Carlo Alberto nella prima guerra d’Indipendenza, a causa della cecità politica degli altri sovrani centromeridionali, che, timorosi di perdere la loro autonomia e di porsi in una situazione di quasi vassallaggio nei confronti dello Stato sabaudo, finiranno per non accettare un federalismo “inuguale” come quello poi attuato dalla Prussia nel 1871 nei confronti degli altri stati tedeschi, privando così il Re di Sardegna di quell’aiuto militare di cui avrebbe necessitato contro l’esercito asburgico di Josef Radetzky.
Occorrerà un altro decennio e la paziente opera del “Grande Tessitore”, Camillo Benso conte di Cavour, per l’annessione al Regno della sola Lombardia dopo la seconda guerra d’Indipendenza nel 1859, sostanzialmente combattuta e vinta dai francesi di Napoleone III a Solferino, ancorché con l’apporto dell’esercito piemontese nelle battaglie di Magenta e San Martino, con la cessione, peraltro, dei territori di Nizza e Savoia alla Francia: il che comunque darà la stura, l’anno successivo, all’impresa garibaldina della conquista del Regno di Napoli – con il beneplacito dell’Inghilterra, che aveva in animo di distruggere quel regno posto al centro del Mediterraneo – propedeutica alla proclamazione, il 17 marzo del 1861, del Regno d’Italia, anche se ancora senza il Veneto e Roma. Insomma – e qui sta il “cruccio” storico, l’altra “distonia” nel processo di formazione della nazione – l’unificazione dell’Italia avveniva non militarmente, ma, da un lato, grazie a Napoleone III, alla costante ricerca di prestigio internazionale, dall’altro ad opera di William Ewart Gladstone e dei liberali inglesi. Ma delusioni più cocenti dovranno ancora arrivare un quinquennio più tardi, con la terza guerra d’Indipendenza, che portò sì all’annessione del Veneto, ma solo grazie alla sconfitta dell’Impero asburgico ad opera della Prussia di Otto von Bismarck, a cui l’Italia si era alleata, a seguito della schiacciante vittoria di Sadowa nel luglio 1866, colta dal formidabile esercito prussiano guidato da Helmuth Karl Bernhard Graf von Moltke: tutto ciò, mentre le armi italiane subivano, ad opera degli austriaci, le umilianti sconfitte di Lissa e Custoza, talché, almeno in una prospettiva nazionale, la guerra doveva considerarsi fallimentare sia per i gravi insuccessi militari sia per il fatto che rimanevano fuori dal regno – e questo sarà un altro passaggio chiave – altri territori, come il Trentino e l’Istria, popolati da numerosissimi italiani. Anche la conquista di Roma e l’annessione del Lazio al Regno d’Italia nel 1870 furono determinati da successi altrui, questa volta a spese della Francia, sconfitta dalla Prussia il 2 settembre a Sedan, la quale, con il crollo dell’impero di Napoleone III, non era più in grado di proteggere militarmente lo Stato pontificio: ancora una volta, quindi, un grande obiettivo connesso alla unificazione del Paese, vale a dire lo smantellamento del potere temporale della Chiesa e la sua incorporazione nella monarchia Sabauda, sopraggiungeva per un caso e non per l’effetto di vittorie militari proprie.
In conseguenza, negli anni successivi, proprio per come si era concluso il processo di unificazione nella consapevolezza dei tanti insuccessi che avevano costellato tutto il periodo risorgimentale, incomincia a serpeggiare una diffusa sensazione di malessere spirituale, una sorta di “complesso di inferiorità”, un senso di frustrazione generale, che, sfociando gradualmente in aneliti di rivincita e di espansione territoriali, finiranno per tradursi in aspirazioni irredentistiche e poi nazionalistiche e colonialistiche: tutto ciò, peraltro, senza por mano e senza aver prima risolto i gravissimi problemi che affliggevano – e non solo da quel momento – il Paese, in particolar modo il Sud della penisola, ciò che avrebbe posto sin da allora gravi incognite sul futuro sviluppo della vita nazionale. Il Risorgimento, dunque – come ci riferisce lo studioso professor Franco Cangelosi nei suoi lavori sulla terra di Sicilia, ciò che vale per tutto il Mezzogiorno – nonostante le sue promesse di diffuso benessere, ben poco apportava alle genti meridionali e, lasciando il Sud nelle condizioni di povertà, lo dannava allo stato di “figlio rachitico” del nuovo regno e ad una situazione comatosa per decenni. La nuova classe politica insediatasi al potere dal 1876, imbevuta pertanto dell’idea mazziniana del primato che spettava all’Italia in Europa, smaniosa di esibirsi in politica estera, ma anche come alibi per eludere la soluzione dei problemi che attanagliavano il nuovo Stato unitario, dà la stura alla politica di potenza e, benché in ritardo e con una sommaria preparazione militare, avvia nel 1885, partendo dalla colonia Eritrea, una politica di espansione coloniale nel Mar Rosso e in Etiopia.
Ma anche questa è destinata ad aggiungere ulteriori delusioni e profondo senso di frustrazione: già nel gennaio del 1887, il massacro dei cinquecento uomini del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis a Dogali ad opera di preponderanti forze di Ras Alula; dopo la denuncia unilaterale, nel maggio del 1893, del Trattato di Uccialli da parte di Menelik e i parziali successi di Agordat, Cassala, Senafè e Adigrat negli anni 1894/95, la carneficina, il 7 dicembre 1995, dei duemilatrecentocinquanta uomini del maggiore Pietro Toselli al passo dell’Amba Alagi. Ma il peggio dovrà ancora arrivare nel mese di marzo dell’anno successivo, con il disastro di Adua, per mano del negus Menelik rifornito di armi dalla Francia, dove avrebbero trovato la morte cinquemila italiani oltre ad un migliaio di ascari e millecinquecento feriti, più morti quindi di tutti quelli nelle guerre d’Indipendenza. La terribile sconfitta di Adua, frutto di imperizia, impreparazione, approssimazione - si pensi che le tre colonne dirette su Adua erano dotate di carte topografiche del territorio etiopico del tutto erronee - oltre che di cecità politica, avrebbero portato all’uscita dalla scena politica di Francesco Crispi e al momentaneo accantonamento di velleità colonialistiche/imperialistiche. Venivano altresì occultate le gravissime responsabilità politico-militari che avevano determinato il fallimento delle imprese coloniali in Africa, tant’è che anche il generale Oreste Baratieri veniva assolto dal Tribunale di Guerra, riunitosi nel giugno del ’96, da responsabilità penali pur deplorando pesantemente l’esercizio del suo comando. Persino il rigurgito colonialistico nella guerra italo-turca nel 1911, che avrebbe sì consentito la conquista della Libia, limitatamente però alle sole città costiere, avrebbe rivelato impreparazione militare, conducendo anche a gravi insuccessi, come il massacro di bersaglieri a Sciara Sciat.
Ma era in arrivo la nuova guerra mondiale, a cui l’Italia partecipa, dopo l’accordo con le Potenze dell’Intesa, siglato il 26 aprile 1915, e dopo aver riesumato le sue aspirazioni irredentistiche, temporaneamente accantonate per effetto della sua adesione alla Triplice Alleanza, e aver posto sul tappeto anche quelle nazionalistiche e colonialistiche a spese della Germania a guerra finita. E fu la disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917, che si situa pure essa nella scia di una ricorrente impreparazione politico-militare, in particolar modo negli alti comandi, cosicché un generale malessere, proveniente da lontano, finisce per attanagliare la maggioranza dell’opinione pubblica. Per fortuna, il nuovo comandante supremo, il generale Armando Diaz, riuscirà a riprendere, dal 24 ottobre del 1918, l’offensiva dalla linea del Piave e a sconfiggere gli austriaci nella battaglia di Vittorio Veneto. Anche il Trattato di Pace di Versailles, nel gennaio dell’anno successivo, aggiungerà ulteriore scoraggiamento e delusione a fronte del mancato ascolto delle richieste italiane, in particolare per Fiume e la partecipazione alla spartizione delle colonie, talché nell’Italia, trattata come una potenza di second’ordine dagli alleati, si alimenta il mito della “vittoria mutilata”, né d’altra parte l’Autorità governante si mostra capace di risolvere i problemi del dopoguerra, da quelli sociali al reducismo.
Fu quindi l’ora del fascismo, il solo fortunato maschio capace di fecondare la nazione “femmina”! E vennero la dittatura, l’accordo con la Chiesa, basato su una equivocità di scopi reciproci, le leggi razziali, l’Impero, il Patto d’Acciaio con il fuhrer tedesco e la nuova guerra, poggiante su un imponente mix rivendicativo, tutt’assieme “irredentista, colonialista-imperialista e nazionalista”. Ma anche la mussoliniana “guerra parallela” andrà presto incontro a immani disastri: in Grecia, attaccata il 28 ottobre 1940 e voluta dalla classe dirigente e da alcuni ambiziosi quanto incapaci generali, e nel Mediterraneo, a Taranto e a Capo Matapan; in Africa Orientale, definitivamente perduta nel ’41, e soprattutto in Africa settentrionale, dove l’offensiva iniziata della Decima armata di Rodolfo Graziani, si infrangeva a Sidi el Barrani, a soli novanta chilometri dal confine libico-egiziano, e da lì tutto un susseguirsi di umilianti ritirate, con più di centotrentamila prigionieri in mani inglesi. Dopo disastri su disastri, il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo e l’esito dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi che decretò la fine del fascismo; ma fino a quel momento nessuno vigliaccamente aveva fatto alcunché: nulla avevano fatto i militari, nulla avevano fatto gli antifascisti, che poi sopraggiunsero come avvoltoi e come corvi, usciti dalle cantine e dalle fogne alle spalle delle truppe alleate vittoriose – riferisce Grandi – assetati di odio e di vendetta, nulla aveva fatto il Re, il quale, forte del deliberato del Gran Consiglio, non trovò di meglio che scegliere come primo ministro il maresciallo Pietro Badoglio, l’uomo più vile e più codardo – continua Grandi – che potesse essere chiamato dal sovrano alla guida del Paese, portando così al disastro l’Italia e la stessa Monarchia.
Terminato il conflitto bellico nel sangue della guerra civile, seguita poi dalla “prova d’orchestra” della rivoluzione con la campagna di odio e le stragi dei comunisti nel “triangolo rosso” dell’Emilia Romagna, venne l’ora della Repubblica, una stracciata Repubblica nata tra infausti compromessi e contraddizioni, negli equivoci di una democrazia solo apparentemente liberale, nata in realtà da una sconfitta del liberalismo, peraltro geneticamente manipolato in peius in un corrosivo settantennio di Repubblica, e vissuta in un clima di strisciante guerra civile, ciò che ha prodotto la tragica stagione del terrorismo: da quello dell’estrema sinistra, con le coperture da parte del Partito Comunista italiano, al sovversivismo dell’estrema destra; dal leggendario “Piano Solo” all’omicidio di Luigi Calabresi e a Piazza Fontana; dall’assassinio di Aldo Moro – egregiamente ricostruito da ultimo come “delitto soprannazionale” dal professor Vito Sibilio – alle carneficine dell’Italicus, di Ustica, di Brescia e di Bologna; dagli oscurati finanziamenti sovietici al Pci a “Mani Pulite”, con l’annientamento dei due maggiori partiti di governo e la possibilità di attuare il sogno della sinistra, attaccata psicoticamente alla sua identità; dalle liste massoniche della P2 fino all’attentato al papa e alle indagini sulla nostra intelligence.
La storia di una democrazia, quindi, che non ha gloria ma neppure atroci sconfitte, semmai soltanto una lugubre sequela di parassitismo, di corruttele e di cronache giudiziarie: cosicché dalle miserie della prima Repubblica a quelle di una semi-demenziale seconda Repubblica il passo è stato breve! Una Repubblica con la sua guancia sinistra macchiata da una grossa voglia di topo, un odore di muffa, di miseria morale e di farisei che si espande nell’aria – odori che collimano col nostro giudizio morale di liberali traditi – in cui ben si situano l’attuale Autorità governante, di cui si è già detto in “Eredi di Gramsci?”, che turpemente sta vivendo con disinvoltura la propria incerta contemporaneità, e una burocrazia d’accatto che l’appaga e accresce il suo irresponsabile potere. Un continuum grottesco dunque, un tunnel di cui non si vede la luce e in fondo al quale si colloca un sistema di potere capace di dominio assoluto, che inghiotte con arroganza ogni atteggiamento eterodosso, un’Autorità governante il cui incosciente avvinghiamento ad un passato-che-non-passa costituisce la cartina di tornasole della sua incapacità di leggere e dominare il presente, fino a sbagliare ogni cosa: solo per fare degli esempi di questi giorni, da un piano vaccini inesistente alla assenza di ogni programmazione, da una folle carenza di personale sanitario al collasso ospedaliero, da una ridicola politica scolastica ad un piano trasporti neppure abbozzato, da misure economiche assai discutibili ad un Recovery plan europeo che ancora naviga nella confusione più totale. Un monstrum dilagante i cui attori non intendono rischiare neppure un centimetro quadrato della loro preziosissima “pelle”, in un teatrino squallido e grottesco dove tragedia e farsa s’intrecciano. Cosicché l’Italia è stata consegnata, ancora una volta, con il suo passato e il suo avvenire, agli uomini più codardi, più sinistri e più incapaci che siano stati scelti tra sessanta milioni di italiani!
Aggiornato il 11 gennaio 2021 alle ore 12:01