
Siete molto ricchi? Allora, per Xi Jinping dovete pagare pegno, avendo assieme alla ricchezza conseguito maggiori e del tutto proporzionali responsabilità sociali. In breve: il capitalcomunismo di Pechino (assoluto vincitore sul Covid dopo averlo evocato, aprendo il vaso di Pandora dei serbatoi animali del virus, venduti nei suoi mercati umidi) si atteggia a nuovo Robin Hood, risvegliando il Dragone del Partito unico, lasciato sonnecchiare fin troppo a lungo per nutrire il miracolo economico cinese, che ha preso il meglio e il peggio del capitalismo americano, lungo il suo percorso verso la liberazione dalla povertà assoluta e dall’indigenza di centinaia di milioni di contadini, che vivevano appena al di sopra della soglia alimentare minima. Il totalitarismo del Partito Comunista ha messo dapprima e in modo feroce sotto controllo la demografia e le nascite, limitandole a un solo figlio per nucleo famigliare (salvo ad accorgersi che, avendo eliminato un numero impressionante di bambine con l’aborto preventivo, venivano così a mancare le spose per i maschi adulti!), per poi nutrire l’impetuosa e impressionante industrializzazione del Paese con immense risorse di denaro pubblico, stampato dalla banca centrale. La sua adesione al Wto (World trade organization), nel 2001, voluta da quell’illuminato di Bill Clinton, senza fissare e imporre il rispetto delle regole di reciprocità (io ti apro i miei ricchissimi mercati interni, ma tu fai lo stesso con i tuoi e adotti regole fair per competere onestamente con me sui costi e sulla sicurezza del lavoro), ha permesso alla Cina di fare un mostruoso dumping fiscale rispetto ai costi di produzione e della manodopera.
La conquista dei mercati mondiali da parte dei beni prodotti in Cina a basso costo e di qualità assai discutibile, ha messo progressivamente fuori gioco vastissimi comparti industriali dell’Occidente ad alta densità di manodopera, facendo sì che alle delocalizzazioni a tutto campo corrispondesse, dall’altra sponda dell’Atlantico e qui in Europa, la perdita di posti di lavoro per decine di milioni di unità nell’industria e nei servizi, soprattutto per quanto riguarda l’elettronica e le manifatture metalmeccaniche e tessili a modesto valore aggiunto. Dal punto di vista del potere assoluto di Pechino, il problema posto dall'impetuoso sviluppo economico della Cina era di mantenere il controllo ideologico sull’economia (non più centralizzata!), e di riportare nell’alveo dell’ortodossia comunista della redistribuzione equa dei profitti gli animal spirits del capitalismo sfrenato, compreso quello della speculazione finanziaria e dei grandi conglomerati di imprese e banche non soggette a controllo pubblico.
Come rimediare, quindi, alla privatizzazione dell’economia cinese? Semplice: rispolverando, come all’epoca dei soviet e del maoismo, il modello dei commissari di fabbrica (oggi, comitati di partito), sguinzagliati in modo capillare in tutte le aziende e le imprese produttive del Celeste Impero, affinché siano rispettate le direttive politiche dell’autorità centrale, impedendo contestualmente ai lavoratori, oggi come allora, di organizzare sindacalmente la protesta per le disastrate condizioni ambientali e i ritmi infernali in cui si svolgono le loro attività di lavoro. Oggi, tuttavia, la versione è più soft: i comitati hanno un ruolo consultivo orientato ad allineare le decisioni corporate al rispetto delle politiche di Governo, nonché di sostanziale controllo dei dipartimenti risorse umane delle imprese private. Il che può far comodo alle Pmi (Piccole medie imprese), dato che l’istituzione dei comitati costituisce sostanzialmente una foglia di fico per non avere troppi intralci dal potere centrale, al momento delle scelte d’investimento.
Ed è così che dal 2018 in poi il Pcc ha dispiegato la sua longa manus sul reclutamento di dirigenti e manodopera del settore privato e sulle relative decisioni di impresa. Nota The Economist del 14 novembre che, dopo aver riportato all’ordine i boss dei più importanti conglomerati finanziari, lo Stato comunista ha iniziato a prendere di mira i grandi miliardari come Jack Ma, ideatore e Ceo della Amazon cinese Alibaba, dicendo loro che non verrà tollerata nessuna critica pubblica sull’operato e sulle decisioni del Partito. Questo perché Xi Jinping intende riaffermare il suo controllo sul mantenimento dell'ordine sociale e finanziario della Cina, che passa in primo luogo per la messa in riga dei riottosi tycoon del big business nazionale. Non desta quindi sorpresa il fatto che lo Stato abbia posto sotto la lente d’ingrandimento soprattutto le imprese e i settori operativi nell'ambito delle high-tech, che hanno avuto negli ultimi anni un rapidissimo sviluppo: sei delle venti imprese più quotate in Cina sono aziende che hanno interessi nei settori più tecnologicamente avanzati, con miliardi di utenti nel mondo, e che con i loro imperi influenzano la vita quotidiana e la gestione del portafoglio di gran parte della popolazione cinese.
Il 5 novembre scorso, un vero e proprio penalty era stato decretato dal Partito ai danni di Jack Ma, in merito alla sospensione, con due soli giorni di preavviso, di un’offerta pubblica di acquisto per 37 miliardi di dollari da parte di Ant Financial (una delle compagnie Fin Tech del gruppo Alibaba, tra le più quotate nel mondo, che vale sul mercato Usa 313 miliardi di dollari!), dopo che lo stesso Ma aveva osato criticare il sistema delle banche controllate dallo Stato. A stretto giro di posta, il 10 novembre successivo è stato adottato un nuovo e ben più corposo regolamento statale per il controllo dei gruppi del settore tecnologico, mettendo definitivamente in chiaro chi comandi veramente in Cina. Del resto, quando fu eletto Presidente, Xi si trovò a dover affrontare il problema spinoso di un sistema corporate corrotto, malregolato, contraddistinto da enormi frodi e da eccessivo indebitamento. Incassato il successo delle sue campagne anticorruzione, che avevano colpito alti dirigenti di Partito, Xi aveva poi posto sotto stretta osservazione e incarcerato non pochi di quei nuovi capitalisti rampanti che avevano praticato acquisizioni a rischio di asset esteri. Mossa che aveva contratto le acquisizioni e fusioni cinesi all’estero dai 200 miliardi di dollari del 2016, a soli 40 nel 2019, con contestuale disinvestimento di decine di miliardi di dollari in aziende estere! Qual è il rischio vero di un sempre più accentuato controllo del Partito sulle imprese? Semplice: le direttive politiche potrebbero voler sacrificare l’innovazione, passando dalle ragioni del profitto a quelle del rispetto di obiettivi politico-sociali fissati dal Partito. Vedremo in futuro se la Terza Via cinese sarà meno iniqua di quella tracciata oggi dal capitalismo finanziario dell’Occidente.
Aggiornato il 17 dicembre 2020 alle ore 11:04