
Il socialcomunista è affetto da “preventivite”, perché è pavido e pauroso. Tutte le paure e le fobie di questa terra lo perseguitano; egli desidera vivere in una “campana di vetro”, nel guscio della protezione sociale, al riparo da tutte le possibili insidie della vita; il suo programma esistenziale consiste in un cammino programmato, privo di imprevisti e “comune” ai suoi simili. In ragione di ciò, il suo programma politico consiste nell’eliminazione della competizione sociale, perché non ne accetta il rischio, e nella prevenzione di tutti i “mali” possibili, che non vengano a turbare la “serenità” e la “sicurezza” dei suoi giorni. E s’intende che programmi personali e programmi politico-sociali si influenzano e implementano vicendevolmente, cosicché negli ordinamenti socialcomunisti la vita sociale si svolge secondo i dettami della paura e della prevenzione, portati fino alle estreme conseguenze, e le persone fisiche sono indotte a versare la loro esistenza nell’incubo dell’ipocondria. La relazione è biunivoca: l’ipocondriaco desidera il socialcomunismo, mentre il socialcomunismo genera la sindrome ipocondriaca.
Le vicende italiane legate al virus cinese, che viene dalla Cina e ci conduce in Cina, ne costituiscono la conferma più lampante. È sotto gli occhi di tutti che i più entusiasti sostenitori delle misure governative di “prevenzione” – consistenti in gravosissime restrizioni incostituzionali della libertà individuale, imposte con atto amministrativo (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri), non si sa quanto efficaci, anzi, in base ai numeri ufficiali, verosimilmente inefficaci – sono al contempo i più convinti seguaci del mainstream di sinistra. E non è un caso; è piuttosto la conseguenza necessaria dell’anzidetta correlazione biunivoca. La scienza psichiatrica chiarisce l’essenza dell’ipocondria, configurandola come una sorta di ossessione fobica della morte; l’ipocondriaco vive nel perenne panico del pericolo incombente, perché, nel profondo del suo animo, non ha mai rinunciato a una recondita pretesa d’immortalità. Solo rinunciando a questa pretesa, può comprendere che vale la pena vivere; in altri termini, per riempire il vuoto della sua vita, deve assimilare un concetto elementare: che la morte è inevitabile. E solo ritrovando le motivazioni cha danno senso alla vita, l’ipocondriaco può rinunciare alla sua pretesa e perciò superare la sua sindrome. Ebbene è impossibile scoprire queste motivazioni all’interno di un “gregge” anonimo, laddove non c’è posto per la scelta personale, cui si connette inevitabilmente la possibilità di sbagliare, e non viene premiato il merito individuale. Quanto più la persona è costretta ad appiattirsi sul gregge, tanto più regredisce a fantasie d’immortalità, sicché l’intero orizzonte della sua vita rimane confinato all’esistenza corporea e la minaccia della morte rappresenta il crollo di tutto. Se la “salute” diventa il totem al quale tutto può essere sacrificato, l’ipocondria diventa la cifra della convivenza sociale, giacché si vive nella permanente paura della morte. Si vive da malati, nella fideistica fiducia che lo Stato-salvatore prevenga tutti i pericoli della nostra esistenza.
Naturalmente, nel panorama del mondo occidentale l’Italia eccelle in “preventivite” salutistica e non è un caso che abbia adottato le più rigorose misure di “contenimento” della pandemia provocata dal virus cinese, riuscendo tuttavia a contenerla con minore efficacia rispetto agli altri Paesi, che hanno adottato misure meno restrittive della libertà dei cittadini. Forse si può azzardare l’equazione, secondo la quale il tasso di ipocondria sociale è direttamente proporzionale al tasso di comunismo dell’ordine socio-politico vigente, in Italia certamente il più alto nel mondo occidentale; e non direttamente proporzionale, magari addirittura inversamente proporzionale, alla reale efficacia dei metodi di prevenzione. Ed è evidente altresì che la “salute” alla quale il comunista vuole sacrificare la nostra libertà, in nome della “prevenzione”, è solo quella corporea-vegetativa della persona umana, anzi quella frazione presa in considerazione dagli atti di Governo. Se si vuole contenere la pandemia da virus cinese, poco importa che i pazienti non vengano assistiti e magari muoiano per altre patologie; e importa ancor meno che la salute mentale e psicologica degli italiani venga messa a dura prova; che ai bambini venga sottratto il contatto umano e l’insegnamento scolare; che gli anziani marciscano nell’isolamento.
Ma c’è di più. Il baratro della “preventivite”, indotta dall’indole paurosa del socialcomunista, è molto ampio, giacché si estende a tutti gli aspetti della “salute” corporea-vegetativa dell’uomo e dunque anche ai mezzi economici di sussistenza. Il socialcomunista ha paura non solo di morire fisicamente, ma anche di morire economicamente. Per questa ragione, vuole un’economia pianificata; aborre il dinamismo del mercato, che fa nascere e morire le aziende, crea e distrugge occasioni di lavoro, nel mentre predilige la quiete “certezza del futuro” assicurata dallo Stato. Ogni riferimento al reddito di cittadinanza e ai fantasiosi e mirabolanti bonus governativi (monopattino e similari) é puramente casuale. In questa logica il lavoro si identifica col “posto fisso”, tanto “fisso” che si sospendono per decreto i licenziamenti, seppure l’impresa sia in agonia, magari chiusa per coazione governativa e comunque costretta a pagare tutti i balzelli fiscali, nessuno escluso. Sia concesso (la parola “concessione” piace tanto ai socialcomunisti) cogliere un’ulteriore elementare connessione logica, forse addirittura offensiva per l’intelligenza dei lettori, tra offerta e domanda di assistenza. È pensabile che la deriva assistenziale dello Stato socialcomunista sia legata alla domanda di assistenza dei cittadini? Ed è ragionevole pensare che la domanda di assistenza sia legata alla paura del domani? Ne possiamo inferire che il socialcomunista, amplificando la “paura del domani”, ne fa la cifra della sua esistenza? E allora, al fondo del mare magnum dell’assistenzialismo improduttivo possiamo scorgere l’insana “preventivite” del socialcomunista, generata dalla sua patologica paura del domani? (Vostro onore, non ho altre domande!).
Sotto un altro profilo, emerge la medesima radice fobica che alimenta la “preventivite” del socialcomunista. Tutte le procedure amministrative di autorizzazione preventiva, all’esercizio di attività commerciali e produttive, sono ufficialmente giustificate, in un modo o nell’altro, dalla cura della nostra “salute”. L’autorità amministrativa vigila su di noi e preserva la nostra salute dai fantasiosi pericoli, cui la esporrebbe la libera iniziativa dei privati, sottoponendo il diritto di fare impresa a una serie interminabile di onerose e farraginose procedure di “nulla osta”. Peccato che in nessun altro Paese del mondo occidentale si ravvisino tanti e tali pericoli, tanti e tali elementi “ostativi” da dover rimuovere con controlli amministrativi preventivi; peccato che tante amorevoli cure dello Stato italiano socialcomunista si risolvano di fatto in una serie infinita di “lacci e laccioli”, che ingarbugliano la dinamica di mercato, sottraendo competitività al lavoro italiano, a tutto vantaggio dei competitors stranieri, considerati in patria molto meno pericolosi. In ultima analisi, pare chiaro che il mostro della parossistica “preventivite” italiana, che deprime l’iniziativa privata e progressivamente riduce gli spazi di libertà, abbia origine nell’indole paurosa e ipocondriaca dell’uomo socialcomunista, il quale, desiderando per sé una vita piatta e uniforme, vuole imporre agli altri il suo modello di società appiattita e “immunizzata” dal pericolo del domani.
Aggiornato il 11 dicembre 2020 alle ore 09:22