Oggi abbiamo un tristo e intristente ministro della Salute che si chiama Roberto Speranza, dimostrando così come, a volte, sia beffardo e irriverente il fato nell’attribuire le sorti umane ai nomi. Potremmo altresì ricordare che nei nomi sia contenuto il significato intimo e ultimo delle cose, e Giustiniano scriveva infatti “nomina sunt consequentia rerum” nelle sue Institutiones, semplificato ed esemplificato in seguito con la locuzione “nomen omen”, ovvero “nel nome vi è il destino”. Insomma, il ministro Speranza, se così fosse, non dovrebbe fare eccezione e dovrebbe appunto essere portatore, più o meno sano quindi asintomatico, di quella “spes ultima dea” che resterà in fondo al vaso di Pandora, nell’arcaico mito greco e addirittura secondo Ugo Foscolo sarebbe specchio quindi del fatto che “anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri”. Fugge i sepolcri, dunque non appartiene al dominio della morte. Eppure, ogni giorno il ministro Speranza, con malinconiche sembianze, ci affligge con il bollettino delle centinaia di morti che sarebbero la tragica messe del Coronavirus, contraddicendo Filone Alessandrino che invece riteneva la speranza essere “gioia prima della gioia” e quindi facendosi poi chiosare da quell’allegrone che fu Giacomo Leopardi e i suoi sabati. Ci verrebbe quindi da chiederci cosa sia successo nel frattempo, che abbia letteralmente invertito, capovolto, il significato recondito di un nome tanto foriero di serenità.
Avrebbe senso ai nostri giorni, oscuri e rapidi in precipizio verso l’ultimo sobbalzo d’un’età oscura, la serie delle Virtù, oggi agli Uffizi di Firenze, che nel XV secolo dipinsero con sublime e inarrivabile maestria due grandi artisti come Antonio del Pollaiolo e Sandro Botticelli? Pollaiolo, al secolo Antonio Benci, nell’anno del Signore 1470 dipingeva ad olio, una tavola raffigurante appunto la Speranza, virtù cristiana che getta uno sguardo di là da nostra sorella morte corporale e non soltanto spinge l’uomo ad andare oltre e a superare qualsiasi traversia e avversità, ma ci vuole insegnare che esiste una vita oltre la vita. La donna dipinta, che indossa le verdi vesti della Speranza, siede in trono e ha dunque le mani giunte in atto di preghiera volgendo gli occhi al cielo, un po’ come facciamo noi quando il ministro della Salute appare in video, ma con molti più scarsi risultati, va anche detto. Soltanto l’ultima, e non è un caso, delle sette tavole commissionate agli artisti fiorentini dal tribunale della Mercanzia di Firenze, sarà affidata ed eseguita da Botticelli, e sarà proprio quella Fortezza, quella forza interiore che oggi più ancora di ogni altro sentire ci necessita.
Così come suona in questo periodo autunnale, vagamente irrisorio, sarcastico, il modo di dire popolare che dice “finché c’è vita c’è speranza” anche quasi con un vago accenno iettatorio, fortificato dall’altro proverbio “la speranza è l’ultima a morire”. Forse no, forse anche la speranza, non la virtù, è alla fine come la morte, sacrificio a se stessa sullo suo strano altare, già funereo nell’incedere arrancante di questa nostra Repubblica che fa inorridire ad ogni paragone con quelle del passato. No, forse sarebbe meglio se non ci fosse più Speranza per l’Italia.
Aggiornato il 12 novembre 2020 alle ore 10:56