Breviario di antropologia comunista

Il comunista è invidioso, per ciò stesso che il suo orizzonte politico coincide con l’omologazione e l’appiattimento delle condizioni di vita dei consociati. L’invidioso brama l’omologazione e pretende l’appiattimento, perché non riconosce e non tollera l’innalzamento altrui al di sopra del proprio io. L’invidiato è oggetto di ammirazione inconfessata e subliminale; ed è proprio l’intima repressione dell’impulso originario a dar vita al sentimento dell’invidia. Per questa ragione l’invidia, a differenza degli altri sentimenti, non postula la reciprocità. L’invidioso, proprio perché reprime la sua inconscia ammirazione, non vuole essere riconosciuto come tale e non vuole che l’invidiato eserciti a sua volta invidia vero di lui. Si tratta dunque di un sentimento che distrugge la compassione (ossia la condivisione di gioie e dolori) nelle relazioni interpersonali e ostacola la collaborazione nei gruppi sociali. Il sentimento dell’invidia è in qualche modo connaturato all’uomo, ma ovviamente l’impatto sulla personalità individuale è ben diverso, secondo che sia contenuto o straripante; allo stesso modo è ben diverso il risultato sociale, secondo che la sua forza distruttiva sia frenata oppure prenda il sopravvento.

Il contenimento degli effetti negativi può aversi solo in quegli ordinamenti sociali che riescono a distorcere e indirizzare l’invidia verso la spinta emulativa, che non reprime l’ammirazione per l’altro e tende a esaltare l’io nella leale competizione regolata da norme uguali per tutti; al contrario, la sua carica distruttiva e i suoi effetti paralizzanti sono massimizzati negli ordinamenti sociali che tendono all’omologazione e all’appiattimento, in quanto non tollerano il successo individuale, ritenuto espressione di hybris. Il discrimine tra i due paradigmi risiede nella natura dell’uguaglianza che ne sta a fondamento: nella società della prima tipologia, sono uguali le regole della competizione e i competitors sono indotti ad ammirarsi reciprocamente, proprio perché la condizione del soggetto osservato diventa il punto di partenza dell’osservatore che intende primeggiare, andando oltre il punto di arrivo del soggetto osservato; nell’ordinamento sociale della seconda tipologia, l’uguaglianza non riguarda le regole del gioco, bensì il risultato del gioco, sicché i partecipanti non sono leali competitor che cercano di superarsi l’un l’altro (come in una gara sportiva), bensì dei viandanti che hanno l’obbligo giuridico di arrivare al traguardo tutti insieme, ossia col passo del più lento. L’uguaglianza delle regole è ben diversa dall’uguaglianza dei comunisti, la quale tende a omologare gli uomini e paralizzarne la spinta innovativa; è tanto diversa che i comunisti disprezzano la prima uguaglianza e la immeschiniscono, qualificandola “formale”, mentre esaltano il proprio utopico egualitarismo, qualificandolo “sostanziale”. In verità, siffatto egualitarismo “sostanziale” si risolve in una grande regressione della società umana verso gli ordinamenti tribali e la paura degli Dei.

Ciò è ben spiegato da Helmut Schoeck nel suo imperdibile libro “L’invidia e la società”, editore Liberilibri. Nella società tribale primitiva, l’uomo non poteva sfuggire al rigido controllo sociale esercitato dai componenti della comunità su ogni aspetto della sua vita, pertanto temeva l’invidia altrui e rinunciava a priori a qualsiasi successo individuale che potesse alimentarla. Anche nelle antiche società più evolute di quelle tribali, l’invidia aveva un analogo effetto paralizzante; i consociati temevano l’ira degli Dei per la loro hybris e pertanto non erano indotti a migliorare se stessi nell’inevitabile competizione sociale. Al riguardo, è molto illuminante il mito di Icaro: la punizione degli Dei si abbatte su Icaro che ha osato troppo, dimostrandosi superbo; il che significa che sono sanzionati tutti quei comportamenti diretti a innalzare se stessi al di sopra degli altri. Gli Dei greco-romani sono “antropomorfi” e nutrono sentimenti e passioni umane; sono dunque la proiezione immaginaria dell’intimità umana, ossia delle paure e delle ansie che affliggono la sfera conscia e inconscia dell’io, sicché la sanzione divina non è altro che l’espressione del risentimento sociale nei confronti di chi vuole affermare se stesso; gli uomini temono la sanzione divina della hybris (di cui è colpevole Icaro), giacché hanno paura dell’invidia degli altri uomini.

Il grande sociologo Schoeck ravvisa nell’ingresso del Cristianesimo nella storia umana l’evento più significativo, che ha liberato la comunità sociale dagli effetti paralizzanti dell’invidia. L’uomo, che prima subiva la collera degli Dei greco-romani, acquista una nuova dignità e diviene arbitro del suo destino, in virtù del riconoscimento del suo “libero arbitrio”; la venuta di Cristo innalza la persona umana a soggetto titolare di diritti naturali e lo libera dall’invidia divina. Il socialcomunismo tende, invece, a far regredire la società umana alla fase precristiana, giacché riassoggetta l’uomo all’effetto paralizzante dell’invidia sociale. È evidente, dunque, che il comunista nasconde un’inconfessabile propensione all’invidia, in ragione del suo ideale di egualitarismo “sostanziale”, che mortifica l’iniziativa e il successo individuale. La prova ulteriore della sua indole invidiosa è sotto gli occhi di tutti. Basta prendere in considerazione i veri destinatari – e non quelli apparenti – delle sue ostilità, in raffronto ai beneficiari delle sue amichevoli premure. Innanzitutto, è facile constatare che il comunista esercita solidarietà da lontano e invidia da vicino; egli ha “compassione” per le classi sociali dei “deboli”, dei “diversi”, degli “emarginati”, astrattamente considerati, piuttosto che del suo prossimo in carne ed ossa. Al contempo, rivolge la sua invidia alla persona che gli siede accanto, piuttosto che alla persona lontana.  Andando più a fondo, si scopre che i veri destinatari dell’invidia non sono i ricchi in quanto tali, come dovrebbe essere consequenziale alle premesse ideologiche, bensì i vicini che hanno spirito di iniziativa, ai quali arride il successo; mentre i veri destinatari della “simpatia” non sono solo i lontani, appartenenti a una delle classi “deboli” cui si rivolge la sua astratta solidarietà, ma eventualmente anche i ricchi “vicini”, a condizione che la loro ricchezza non sia derivata dal successo di mercato, verso il quale il comunista mostra sempre e comunque disprezzo o almeno snobistico distacco.

In base alle premesse ideologiche, il comunista dovrebbe aborrire gli “aristocratici” ancor più dei “borghesi”, non foss’altro perché, nella storiografia comunista, la Rivoluzione francese e il trionfo della borghesia sulla nobiltà costituiscono una pietra miliare nel “progresso” dell’umanità in vista della tappa successiva, rappresentata dalla “dittatura del proletariato”. Eppure, è facile constatare che il comunista di oggi, divenuto radical chic, ama sedere nei salotti aristocratici, mentre disdegna la compagnia dei borghesi “arricchiti”, ancorché costoro sarebbero rappresentativi del “progresso” rispetto ai nobili “parrucconi”, secondo la sua stessa storiografia ufficiale. Stupisce, poi, che il comunista detesti il piccolo bottegaio ancor più del miliardario, con il quale magari non disdegna di intrattenersi; nella sua logica la proprietà privata è un furto e dunque al “bottino” maggiore dovrebbe corrispondere esecrazione maggiore. Ma ognuno di noi vede che non è così: non c’è connessione diretta tra quantum di ricchezza e quantum di esecrazione. Il comunista aborre il piccolo imprenditore, povero quanto il suo operaio; e tanto più il rozzo Mastro don Gesualdo, prototipo del self made man, dedito al faticoso lavoro manuale con gli umili arnesi della falce e martello (quantunque la falce e il martello costituiscano il simbolo universale del comunismo); al contempo non disdegna la compagnia di una certa tipologia di ricchi: soprattutto aristocratici, come s’è detto; in secondo luogo borghesi, purché appartenenti al capitalismo “di relazione” oppure a quello tutelato dalla politica (ovviamente di sinistra).  Insomma, deve trattarsi sempre e comunque di soggetti non premiati dal mercato.

Ecco dunque trovato il vero oggetto dell’invidia, che spiega le apparenti contraddizioni del comunista: il successo di mercato. Ciò che veramente egli invidia è la capacità di iniziativa altrui, premiata dal successo decretato dai consumatori-utenti (ossia dal mercato); non invidia tanto la ricchezza accumulata dagli avi, che assicura una rendita di posizione, quanto quella creata hic et nunc con la libera iniziativa, perché è proprio questo spirito di intrapresa ciò che gli manca. Il capitalista che ha la certezza del successo a priori, in virtù delle sue relazioni personali o dell’appoggio politico, non desta particolarmente la sua invidia; né la desta il rentier, con il quale può anche solidarizzare, essendo egli stesso titolare o alla ricerca di una rendita di posizione; la desta molto di più colui che accetta il rischio di mercato, compete in campo aperto e consegue il successo. In ultima analisi, il comunista indirizza la sua invidia, piuttosto che al denaro in quanto tale, al successo economico che premia la libera iniziativa individuale; il vero oggetto della sua invidia è Icaro che riesce a volare.

Al tirar delle somme – avendo osservato le ragioni profonde della propensione del comunista al moralismo, al giustizialismo, all’ingenuità unita alla supponenza, alla “buracrotofilia”, alla diffidenza e sospettosità, all’ambizione disgiunta dal merito, alla cavillosità e al “doppiopesismo”, e da ultimo all’invidia sociale – ci si avvede che della sua presunta superiorità antropologica rimane ben poco.

 (10/Fine)

Aggiornato il 02 novembre 2020 alle ore 15:24