Confinamento selettivo, il post lockdown

Chiudere o “socchiudere”? Senza dubbio, il così detto confinamento selettivo, del tutto preferibile a un lockdown generalizzato nel caso di un andamento pandemico a macchie di leopardo, avrebbe necessitato di una tempestiva programmazione e di un altrettanto rapido intervento di sistemazione della sanità territoriale di prima prossimità, da attuare tra una gobba e l’altra. E invece, fin troppi hanno toccato ferro (o il famoso cornetto napoletano) scommettendo che, essendo stati gli italiani più bravi di tutti, era definitivamente “passata ‘a nuttata” del Covid-19. Cosicché, Regioni e ministeri se la sono presa comoda, mentre nel frattempo il ministro della Sanità, Roberto Speranza, stendeva anticipatamente sulla via del Recovery fund il suo cappello di carta, confezionando una “Proposta di Piano sanitario riforma e resilienza” (vedi Antonio Polito sul Corriere della Sera del 23 ottobre 2020, in “Sanità e territorio - una riforma da 65 miliardi” da spendere in dieci anni), che contiene tuttavia spunti interessanti di riflessione.

La filosofia originale si ispira a un modello di sanità circolare nel quale il cittadino viene preso in carico dal sistema, mentre i ricoveri in ospedale sono riservati soltanto ai malati gravi e tutti i dati sanitari vengono messi in rete. Oggi, la situazione è del tutto diversa dalla precedente, dato che questa seconda gobba del Covid ha allineato nell’emergenza nord e sud d’Italia, mettendo immediatamente in crisi nel Meridione le terapie intensive e la limitata disponibilità di letti nei reparti ospedalieri. I rimedi proposti dal piano Speranza per il potenziamento della sanità territoriale vedono la costituzione di una vera e propria infrastruttura di 6mila presidi multifunzionali (in media uno ogni diecimila abitanti), per il supporto ai medici di famiglia e luoghi di integrazione socio-sanitaria, denominati “Case della comunità”. Queste ultime resteranno aperte h24 e vedranno all’opera equipe qualificate tra medici di famiglia, specialisti e infermieri, dotati di attrezzature sanitarie adeguate e in grado di utilizzare le risorse della telemedicina per la consultazione delle cartelle digitali dei pazienti, nonché per le diagnosi a distanza. Il secondo aspetto è l’estensione dell’assistenza domiciliare che dovrà passare dal 4 al 10 per cento. Il terzo punto è costituito dagli “ospedali di comunità” (ne sono previsti 1.200, con moduli da 25 posti per degenze brevi) che rappresentano strutture ospedaliere molto più agili di quelle ordinarie e pensate soprattutto per la fase post-ricovero. Infine, è prevista la creazione (uno per ogni Asl) dei “Siot”, Sistema di integrazione ospedali e territori, contattabile per l’essenziale dagli addetti ai lavori, che prenderanno in carico i pazienti per il loro accompagnamento dalla prevenzione alla cura. Vediamo che cosa di tutto ciò Giuseppe Conte porterà a Bruxelles. Ricordando bene che, stavolta, è vietato dire bugie.

Un elemento, tuttavia, è certo: qualsivoglia Piano straordinario per la ricostruzione della sanità territoriale deve essere avocato a sé dall’autorità centrale, escludendo i venti statarelli regionali che hanno fatto della sanità pubblica un luogo infinito e sterminato di sprechi e corruzione. Il rimedio lo sappiamo tutti quale sia: eliminare decine di migliaia di centri di spesa pubblica decentrata (le Asl, in particolare), per ricompattarli centralmente a poche unità. Bisogna, in altri termini, gettare letteralmente nella spazzatura la folle riforma del titolo V della Costituzione, fortissimamente voluto dall’allora centrosinistra proprio per impinguare di migliaia di miliardi le casse di agguerrite burocrazie regionali, con un mare di soldi pubblici da spendere a discrezione dei ras amministrativi e politici, responsabili della sanità locale. Questo ha creato delle vere e proprie greppie di fameliche clientele pseudo-imprenditorali che molto spesso, per quanto riguarda il sud, si sono dimostrate (si confronti le migliaia di fascicoli giudiziari e le relative sentenze passate in giudicato) legate a ogni sorta di clan mafioso e paramafioso.

Questo schema non solo ha depredato con i suoi immensi sprechi, ruberie e corruzioni varie il territorio nazionale dei presidi ambulatoriali, assistenziali e ospedalieri di prima prossimità, ma ha costretto le stesse Regioni al taglio progressivo degli stanziamenti di bilancio, privatizzando la sanità pubblica e riducendo così progressivamente in modo drastico organici e presidi sanitari nell’arco di circa trenta anni, a partire dall’obbligo del rispetto dei parametri di Maastricht del 1992, divenuti una vera e propria camicia di Nesso del bilancio pubblico italiano dal 1 gennaio 2002, con l’entrata in vigore della moneta unica dell’Euro.

Ma ora (a norma di Costituzione) la pandemia e i soldi del Mes offrono lo spunto dell’emergenza sanitaria, per sradicare questo schema perverso di sprechi e di gravissime inefficienze, creando coattivamente quei famosi standard nazionali delle prestazioni sanitarie, indipendentemente dal luogo in cui queste ultime sono rese. Ovvero: una tac, un ricovero, i costi dei farmaci e delle analisi ospedalieri, un intervento operatorio e così via, debbono essere mediamente allineati (entro una forbice molto contenuta) su tutto il territorio nazionale, anche dal punto di vista qualitativo. Per farlo, il Governo, avocando a sé l’emergenza Covid, non deve mollare un centesimo alle Regioni, tenendo ben ancorati alla programmazione e alle decisioni centrali i finanziamenti europei del Mes e del Recovery fund per ricostruire in tempo di pandemia (da lì, il ricorso ai poteri speciali) il circuito sanitario nazionale per il trattamento sia del Covid-19, sia di flagelli analoghi nel prevedibile futuro. Il tutto, senza mai cedere di un millimetro all’assalto dei poteri decentrati regionali e delle lobbies di ogni genere e grado, blindando il suo operato dalle politiche spartitorie, attraverso la nomina di commissari straordinari, con gli stessi poteri che sono stati conferiti agli amministratori per la ricostruzione del ponte Morandi di Genova, per la realizzazione di blocchi omogenei territoriali di opere infrastrutturali (tipo: case della comunità e ospedali di comunità nel Piano di ricostruzione della sanità nazionale ipotizzato dal ministro Roberto Speranza). Speriamo di smentire il proverbio “chi di speranza campa, disperato muore”.

Aggiornato il 26 ottobre 2020 alle ore 11:01