L’ora d’aria

Germania Orientale. Alla fine dell’autostrada per il Baltico si arrivava a Warnemünde, porto da cui, dopo controlli estenuanti dei Vopos, ci si imbarcava su un traghetto per Gedser, Danimarca.

La nave partiva alle 20, chi arrivava prima aveva l’opportunità di assistere e addirittura partecipare alla passeggiata robotica: i cittadini camminavano con passo velocissimo, su un marciapiede sospeso nel nulla, senza negozi, bar, ristoranti. Solo una bancarella, un tavolino quadrato di settanta centimetri di lato con luce a petrolio. Vendeva qualche elastico, due minuscoli pupazzetti, due di numero. E poi fiammiferi, poche sigarette dell’Est e altri oggetti non indimenticabili.

Quasi nessuno si fermava, forse perché la merce non era interessante, forse perché non c’erano soldi neppure per quella. Ma non si fermavano nemmeno a parlare, sembrava che in una cittadina di ottomila abitanti, satellite di Rostock, nessuno conoscesse nessuno, per la paura di essere notati dalla polizia, sempre sospettosa di qualsiasi contatto, e pronta a interrogatori e arresti.

Camminavano con una rapidità quasi isterica, tutti alla stessa velocità. Guardavano avanti, mai di lato. Un’ora esatta. Un minuto prima delle 17 non c’era nessuno, alle 18 si dissolvevano come per incanto.

Era l’ora d’aria dei tedeschi dell’Est, più controllati dei detenuti occidentali. Ma questo inferno glaciale sembrava addirittura vivace rispetto al nulla berlinese. Guardando attraverso i vetri delle finestre, in qualche appartamento c’era un minuscolo albero di Natale, proibitissimo nella capitale. Non era mai in una stanza esterna, ma l’occhio attento poteva notare qualche lucina illegale, impensabile a Berlino.

Dove nessuno osava nulla, le strade erano quasi deserte, e, come in tempo di guerra, l’urbanizzazione rendeva più difficili gli approvvigionamenti di cibo, che in campagna era meno introvabile. Come in tempi di guerra. Ancora peggio nella Romania di Nicolae Ceaușescu, la cui Securitate batteva persino le campagne alla ricerca di maiali allevati in buche sotto terra, per aggirare la legge che destinava allo Stato tutto il raccolto e gli allevamenti opera del lavoro dei contadini.

Nella Ddr era proibito ogni prodotto occidentale, eccetto in rivendite riservate agli stranieri, sperdute nelle autostrade, come quella che attraversava il confine occidentale e da cui chi aveva il transit-visa per Berlino Ovest non poteva uscire per visitare alcun’altra città. Casotti con aria semi-clandestina vendevano sigarette e cioccolata di pregio, oltre a generi comuni, pagabili solo in marchi di Bonn.

Nella capitale c’era quel concetto di cultura monopolistica che ancora oggi resta nel dna delle sinistre smemorate. Il teatro era una luce nel buio, tutti vestiti da sera, praticamente in divisa in quanto le confezioni provenivano dalle stesse fabbriche. Un bon ton apprezzabile, se non fosse stato per l’atmosfera in cui si viveva.

Scomodare i carri armati di Budapest e Praga, ricordare come i comunisti italiani di allora prima di diventare, dopo l’89, sedicenti liberali, lodassero le normalizzazioni sovietiche è troppo facile.

Oggi, i nostalgici dentro, quelli certi della propria superiorità politica e culturale, passeggiando per Berlino, al check-point Charlie tirano dritto guardando i negozi della Friederichstrasse. I più anziani fingono di non ricordare, o non hanno mai visto, i giovani non c’erano e hanno letto altro. Se hanno letto.

Il liberale vero che torna a Berlino dopo tanti anni è infastidito dai mercatini di bassa lega con ricordini e comparse in divisa che sparano selfie con i turisti al posto dei proiettili contro i fuggiaschi. E ricorda, come una ferita che non si rimargina, di aver attraversato tante volte questo labirinto blindato, quasi sempre nell’inverno buio, con i Vopos che smontano sedili, controllano le automobili facendo uso di carrelli con specchi e ogni tipo di attrezzatura, mentre i cani si agitano tutto intorno, e questo ripetuto con diverse tecniche in un percorso che durava non meno di un’ora. E poi essere uscito all’Est, luci fioche, nessun negozio, nessuno in strada, come dopo un bombardamento.

Non serve ricordare massacri e purghe oltre il Muro. Basta qualche flash retrospettivo, quadretti senza colori dedicati a chi ripete ossessivamente lo stereotipo “per non dimenticare”, riferito solo al fascismo. E finge di non ricordare, o di non aver mai letto tutto quello che non viene tramandato, forse perché la memoria è piena, e non contiene altri dati. Ma se vuole, gli offriamo un hard-disk più capiente.

Aggiornato il 02 ottobre 2020 alle ore 12:12