Un chiaro “No” al Referendum sul taglio dei Parlamentari

Stupisce, o forse ancora più appropriato sarebbe dire “confonde”, ascoltare la “Tribuna Politica” che le varie reti organizzano meticolosamente, allo scopo di tentare di chiarire le idee agli italiani sul Referendum del 20-21 settembre per il taglio dei parlamentari. A meno dei 5 stelle, promotori della legge sulla diminuzione dei parlamentari, schierati per il , per tutti gli altri partiti, man mano che la data del referendum si avvicina, aumenta incondizionatamente il fronte del “No”. Cerchiamo di capirne il perché. Il Referendum propone la conferma o meno della riduzione numerica dei parlamentari da 945 a 600, tagliando dunque 115 senatori e 230 deputati.

Per comprendere meglio quanto in atto è necessaria una breve cronistoria. Nella Costituzione del 1948, i padri costituenti avevano rapportato il numero dei parlamentari alla popolazione, proponendo 1 deputato per ogni 80mila abitanti ed 1 senatore ogni 200mila. I dati di oggi risalgono alla revisione costituzionale del 1963, che fissò il numero totale a 945 parlamentari (315 senatori, 630 deputati). La legge sottoposta a referendum vorrebbe, per contro, portare il rapporto per eleggere un deputato a 151.210 elettori, anziché gli attuali 96mila, e per un senatore 302.420 anziché 188.424. Cioè, uno dei più bassi livelli di rappresentanza politica in rapporto alle popolazioni dell’intera Unione europea.

Allora, dice bene Romano Prodi che, in una intervista dei giorni scorsi annuncia che voterà “No”, adducendo che “intuisce che il numero dei parlamentari non è il problema principale del crescente distacco fra il Paese e il Parlamento”, ma il “dimagrimento” di Camera e Senato “può essere solo la conclusione di un necessario processo di riesame del funzionamento delle nostre istituzioni”. Nella sostanza, anche secondo Prodi con il referendum si tratterà di scegliere tra la democrazia pluralistica prevista dalla nostra Costituzione (che comunque ha bisogno di notevoli cambiamenti) o l’involuzione personalistica e autocratica del sistema politico.

Il taglio proposto, sottoposto a Referendum, non migliorerebbe in alcun modo la qualità del Parlamento. Il nostro sistema prevede attualmente un Senato e una Camera che, di fatto, sono l’una il doppione dell’altro: un bicameralismo che attribuisce a Senato e Camera le stesse funzioni. Il ridurne di un terzo il numero di parlamentari, non farà altro che accentuarne le capacità di controllo da parte di chi “autarchicamente” decide di fare a meno del contributo degli altri, realizzando in questo modo l’anticamera di un sistema politico non più democratico! A guardare cosa è accaduto in Italia negli ultimi anni ho piena conferma di quanto dico. Votare per il al referendum ufficializzerebbe, anzi enfatizzerebbe il deficit di “democrazia” le cui premesse sono già evidenti.

In un documento proposto da ben 183 Costituzionalisti edito su Fanpage, che ritengo molto appropriato e asettico da un punto di vista meramente politico, tra i molti interventi, si legge anche:

“La riforma oggetto del referendum ne riduce la rappresentatività, senza offrire vantaggi apprezzabili soprattutto sul piano dell’efficienza delle istituzioni democratiche”;

“la riforma presuppone che la rappresentanza nazionale possa essere assorbita nella rappresentanza di altri organi elettivi (Parlamento europeo, Consigli regionali, Consigli comunali), contro ogni evidenza storica e contro la giurisprudenza della Corte costituzionale per cui “solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale, la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile”;

la riforma incide “in misura sproporzionata e irragionevole sulla rappresentanza di interi territori nazionali” (il collegio estero è da me trattato di seguito). Se si guarda alla nuova composizione del Senato, infatti, alcune Regioni sarebbero sottorappresentate rispetto ad altre. Facciamo degli esempi: l’Abruzzo, con un milione e trecentomila abitanti, avrebbe diritto a quattro senatori. Ma il Trentino-Alto Adige, con un milione di abitanti e le province autonome, ne avrebbe sei. Oppure la Liguria, con cinque seggi, finirebbe per essere rappresentata al Senato nella sola zona genovese;

la riforma “appare ispirata da una logica “punitiva” nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa. La riduzione dei parlamentari però penalizzerebbe soltanto la rappresentanza delle minoranze e il pluralismo politico e potrebbe paradossalmente produrre un potenziamento della capacità di controllo dei parlamentari da parte dei leader dei partiti di riferimento, facilitato dal numero ridotto degli stessi componenti delle Camere” (concetto da me enfatizzato parlando di “autarchismo”);

infine, secondo gli accademici: “lo squilibrio che si verrebbe a determinare qualora, entrata in vigore la modifica costituzionale, non si avesse anche una modifica della disciplina elettorale tale da assicurare la rappresentatività delle Camere e, allo stesso tempo, agevolare la formazione di una maggioranza stabile di governo”. Il documento conclude definendo “illusorio” il pensare alle riforme costituzionali come le cause di uno “shock” a un sistema politico-partitico incapace di autoriformarsi, nella speranza che l’evento traumatico possa innescare reazioni benefiche. Una cattiva riforma non è meglio di nessuna riforma. Semmai è vero il contrario”.

Se quanto detto a livello nazionale già impressiona di per sé, la situazione che si verrebbe a creare nel Collegio Estero è semplicemente una “Mistificazione”, un “Inganno”, una “Truffa” un “Tradimento”! La legge istitutiva (27 dicembre 2001), votata all’unanimità sia alla Camera che al Senato, che faceva riferimento agli allora “Un milione di italiani residenti all’estero”, indicò in 12 seggi assegnati alla Camera e 8 seggi per il Senato il numero di parlamentari per il collegio estero. In termini di rappresentanza oggigiorno, nel caso venisse confermata la legge sul taglio, nella considerazione che la popolazione dei potenziali “elettori” della circoscrizione Estero è veritieramente di ben oltre quattro milioni di cittadini, un deputato eletto all’estero conterebbe circa 400mila elettori (Aire o italiani all’estero per attività varie) contro i 96mila a livello nazionale; mentre un senatore rappresenterebbe all’estero più di 800mila italiani, contro i 188.424 in sede nazionale.

La differenza tra i cittadini residenti in Italia e quelli residenti all’estero raggiungerebbe cioè livelli stratosferici e si aggraverebbe inevitabilmente al punto da insistere su una domanda: I residenti “Estero” sono considerati realmente cittadini italiani? O forse è più realistico dire che i Residenti Estero valgono un quarto rispetto ai connazionali in Italia? Da notare, inoltre, che per la Circoscrizione estero, oltre alla rappresentanza “politica”, la legge istitutiva prevede anche l’elezione: a livello decentrato dei Comitati degli italiani all’estero (Comites) e in sede nazionale, seppur periodica e non definita, il Consiglio nazionale degli italiani all’estero (Cgie) che, in teoria, deriva la sua legittimità rappresentativa dall’elezione diretta da parte dei componenti dei Comites nel mondo, ma che nella pratica accoglie nei suoi 63 Consiglieri, oltre a 43 eletti dai Comites estero, anche 20 di nomina governativa, quindi non provenienti dal Collegio estero. La rappresentatività espressa nel loro insieme sia dai parlamentari sia dai Consiglieri trova la sua legittimità nella partecipazione dei residenti all’estero al voto sia per le elezioni politiche, con partecipazione intorno al 30 per cento, sia nelle elezioni dei Comites, caratterizzato da uno scarso 6 per cento (ahimè dovuto principalmente a ragioni “organizzative” interne!) degli elettori.

Nella sostanza, se il consesso dei costituzionalisti italiani invoca a “Riforme Costituzionali” per l’intero sistema politico italiano e la rispondente “Rappresentatività parlamentare”, io personalmente, oltre a insistere per un chiaro “No” per il voto per il prossimo Referendum del 20-21 settembre e quindi aggregarmi alla soluzione “Riforma del sistema”, invito l’insieme dei partiti politici a inserire tra le varie riforme in essere (numero parlamentari – riforma elettorale) anche, se non soprattutto, la riforma del collegio estero e la sua rappresentatività, chiedendosi a priori: “i sei milioni di Italiani all’Estero, sono da considerare cittadini italiani a tutti gli effetti o no? E di conseguenza, come realizzare una forma di “rappresentatività” di questi sei milioni di persone, in modo più coerente e rispondente alle reali necessità degli emigrati (probabilmente molto più legate alle radici Regionali di origine)?

(*) Consigliere d’amministrazione e presidente Anfe Tunisia e Consigliere Anfe Cgie

Aggiornato il 01 settembre 2020 alle ore 12:18