Lo scorso 18 agosto, durante il suo intervento a Rimini ospite dell’annuale convention di “Comunione e Liberazione”, tra i numerosi spunti forniti alla platea con la sua personale ricetta economica per il post Covid-19, Mario Draghi ha precisato che “il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le economie e l’inizio delle emissioni di un debito comune europeo, possono diventare il principio di un disegno che porterà verso l’istituzione di un ministero del Tesoro comunitario per conferire stabilità all’area dell’euro”. Quindi, un inedito assoluto, perché, per la prima volta, l’ex governatore della Banca d’Italia ed ex governatore della Banca centrale europea, ha parlato apertamente della possibilità di introdurre nell’ordinamento comunitario un ministero del Tesoro con compiti di coordinamento della politica economica per conferire stabilità alla moneta unica. Questa potrebbe essere una svolta davvero storica, anche se è, comunque, un assurdo che ci siano voluti quasi 20 anni da quando è stato introdotto l’euro perché qualcuno di cotanta esperienza iniziasse finalmente a parlare di “migliorare” l’ibrido rappresentato dall’euro, istituendo una nuova Autorità, cioè, un “ministero del Tesoro comunitario” come lo ha chiamato Mario Draghi oppure un “garante della moneta unica” come lo avevamo chiamato noi in un articolo del 6 aprile, in cui avevamo individuato una possibile soluzione “intermedia” tra il “miraggio” degli Stati Uniti d’Europa ed il mantenimento dell’attuale moneta unica, che non può reggere troppo a lungo, anche a causa del Covid-19, ma le cui falle strutturali sono note ormai da decenni.
In effetti, l’attuale schema dell’euro sconsiglia una fuoriuscita immediata perché non è esente da rischi di speculazione finanziaria, sempre pronta ad approfittarsi di situazioni di instabilità, tuttavia, in linea puramente teorica, una delle poche strade percorribili per conferire maggiore stabilità all’euro, in vista dei tempi duri sul fronte occupazionale che attendono l’eurozona dopo il passaggio del Covid-19, è proprio quella di affiancare alla Banca centrale europea un’Autorità garante del Tesoro comunitario, con compiti di coordinamento più incisivi di quelli attualmente in mano alla Commissione Europea. In questo modo, gli stati membri dovrebbero rinunciare ad una parte della loro sovranità nazionale devolvendo al “Super ministero” la gestione della moneta unica e della interconnessa politica economica e fiscale, cioè, proprio il “bilancio europeo” di cui parla Mario Draghi nel suo intervento. I singoli stati dovrebbero mantenere il controllo degli affari non direttamente incidenti sulle politiche del bilancio comunitario, vale a dire, la Giustizia, gli Esteri, gli Interni. Non si tratta di una soluzione miracolosa, ne’ agevole, ne’ di immediata applicazione, anche perché andrebbe modificato il Trattato istitutivo e gli Stati europei potrebbero opporre resistenze più o meno legittime, tuttavia, soltanto conferendo ai paesi della zona euro un reale equilibrio economico e fiscale si può provare ad ammortizzate le conseguenze negative del difetto base della moneta unica, cioè, la sua pedissequa adozione senza un preventivo e forte coordinamento tra gli stati membri che hanno mantenuto bilanci autonomi e regimi fiscali in disequilibrio tra loro.
Un primo passo in questa direzione, secondo Mario Draghi, è stato già fatto lo scorso 21 giugno, attraverso la storica emissione del debito comune europeo, cioè, la distribuzione a fondo perduto di quasi 400 miliardi di euro, 80 dei quali destinati all’Italia, con cui, per la prima volta, i Ventisette hanno dato mandato alla Commissione europea di indebitarsi a loro nome per stanziare risorse finanziarie che dovrebbero arrivare non prima del 2021. Spiccioli, che arriveranno chissà quando, ma comunque, meglio di niente visto che il governo italiano è in grave ritardo nella predisposizione ed attuazione di misure adeguate per fronteggiare l’emergenza economica da Covid-19. La diversa fiscalità tra i vari stati membri e la differente politica economica e monetaria, cioè, l’assenza di un bilancio comunitario vero e proprio, hanno comportato la nascita di un’Europa a diverse velocità, poiché è notorio che alcuni stati europei, come la Germania, sono risultati avvantaggiati dall’introduzione dell’euro, mentre altri paesi ne hanno fortemente risentito, come l’Italia, imbrigliata anche nel Patto di Stabilità e Crescita che ne ha ulteriormente tarpato le ali, imponendo di non sforare il 3 per cento del rapporto deficit-Pil. Come abbiamo scritto lo scorso 6 aprile – riprendendo l’opinione di molti addetti ai lavori che lo vanno ripetendo ormai da oltre un decennio – l’euro è stato un pessimo affare soprattutto per i paesi europei che avevano, in partenza, un’economia debole e Margaret Thatcher lo aveva ampiamente previsto.
Infatti, gli inglesi, anche se la loro economia non era affatto debole, decisero astutamente di non entrare nell’euro e non c’è bisogno di avere particolari conoscenze dei sistemi economici comparati per sapere che l’economia inglese, mantenendo la sterlina, non ha affatto risentito di questa scelta conservativa, anzi, si è rafforzata ulteriormente ed è diventata, nel tempo, l’economia “extra euro” più florida in Europa, anche se le cose stanno cambiando anche lì a causa della doppia tempesta “Brexit–Covid19”. Come puntualmente previsto dalla Thatcher, l’ingresso nell’euro si è rivelato un disastro per i paesi economicamente più deboli, come la Grecia, che ha cominciato ad arrancare praticamente da subito, ma l’euro ha danneggiato anche stati che non erano affatto “deboli”, come l’Italia, in quel momento una delle primissime potenze mondiali, tuttavia, con una moneta avente un controvalore “carta straccia” rispetto al cambio con l’euro e questo particolare si è rivelato decisivo perché ha finito con il distribuire le posizioni dei vari paesi ai blocchi di partenza. A giudizio di molti esperti, non era così difficile prevedere che le cose sarebbero andate in questo modo, per cui le istituzioni europee e nazionali dell’epoca non hanno vigilato adeguatamente su questo delicato aspetto.
Quindi, la variabile del tasso di cambio, la debolezza di alcuni sistemi economici, il disequilibrio fiscale, la mancanza di un vero bilancio comunitario relativo alla zona euro, sono tra i fattori che hanno rallentato la crescita di alcune economie, mentre altre sono riuscite ad innestare una marcia più alta anche grazie all’euro. Questa lettura, molto sommaria, della situazione attuale, deve inevitabilmente far riflettere anche il magico mondo degli europeisti convinti, tuttavia, prendere atto che l’euro ha funzionato male e che andrebbero introdotti rapidamente dei correttivi, non può comportare, in nessun caso, d’essere tacciati di “anti-europeismo” perché l’idea di una moneta unica non era affatto sbagliata, ma andava attuata con i dovuti passaggi intermedi per conferire maggiore stabilità economica e monetaria e per evitare pericolose oscillazioni. Infatti, la moneta unica ha facilitato gli scambi di beni e servizi all’interno della zona euro, ma andava assicurata – il giorno prima e non vent’anni dopo – una politica economica e fiscale da attuare mediante un coordinamento unico tra i diversi sistemi economici, finanziari e fiscali nazionali.
Se il processo di integrazione monetaria fosse stato, non già il punto di partenza, ma il punto di arrivo di un più ampio processo di integrazione politica, economica e fiscale, ne avrebbe tratto giovamento l’intera zona euro e non solo la Francia e, soprattutto, la Germania, cioè, i paesi che, esemplificando al massimo, hanno potuto approfittare del cambio più vantaggioso. Invece, è stato letteralmente messo il carro davanti ai buoi per cui era abbastanza difficile che funzionasse una moneta “senza stato” e senza nemmeno un’autorità di garanzia che assicurasse stabilità, nel quadro di una gestione del bilancio compatibile con i suoi principi basilari, e che, in difetto, lo ha reso assimilabile ad un salto nel vuoto, dalle conseguenze incerte e con ripercussioni anche sulla libera determinazione dei cittadini. Anche se appare decisamente fuori tempo massimo il tentativo di capire se possa esserci stato addirittura del dolo da parte di qualcuno oppure si sia trattato di “semplice” colpa grave, desta, comunque, una certa angoscia la sensazione d’essere stati usati per chissà quali fini, anche se è non è difficile immaginare che i fini siano più o meno sempre gli stessi, basta lavorare non troppo di fantasia, ma osservare la realtà che, sovente, supera la fantasia. In questo modo, diventa assonante la celebre frase del grandissimo filosofo danese Søren Kierkegaard, il padre dell’esistenzialismo, secondo cui “l’angoscia è il sentimento del possibile, la condizione esistenziale generata dalla vertigine della libertà ovvero dalle infinite possibilità dell’esistenza”.
Aggiornato il 31 agosto 2020 alle ore 13:03