
Per Giuseppe Conte è ragionevole “che le forze politiche che sostengono il governo provino a dialogare anche a livello regionale. In Puglia e nelle Marche presentarsi divisi espone al rischio di sprecare una grande occasione”. Dal suo punto di vista il “pochette” del Consiglio ha perfettamente ragione e non va certo biasimato per aver imparato da subito che la politica è “sangue e merda” come ebbe a dire Rino Formica in una ormai celebre dichiarazione.
Ma questa, lungi dall’essere realpolitik, è solo un tentativo neanche troppo discreto di preservare a livello nazionale una situazione politica disperata tenuta in piedi dalla sola pandemia. Non è infatti un mistero che, se non fosse arrivato il Covid a tenere in sella Giuseppe Conte, probabilmente costui sarebbe ritornato a fare l’avvocato da un pezzo mentre il Partito Democratico e i Pentastar sarebbero stati già consegnati ai libri di storia come esperimenti mal riusciti e archiviati.
Il Governo Conte due- con annesso Covid -è giunto come una manna ad allungare l’agonia dei partiti di maggioranza. Il Premier sa perfettamente che il suo è un governo fondato sull’agonia (in tutti i sensi). Conte infatti non è per nulla interessato alla buona salute dei partiti che lo sostengono. Questi ultimi sono solo delle mummie che gli consentono di restare in sella per il maggior tempo possibile: se le mummie non perdono di brutto allora il suo gabinetto è salvo mentre se perdono malamente allora le cose si complicano. Ed è per questo che si affanna a favorire l’ammucchiata nel tentativo maldestro di salvare il salvabile.
Se Giuseppe Conte avesse a cuore il destino dei due partiti che briga per mettere insieme non spingerebbe mai e poi mai per questa alleanza innaturale e dannosa sia per Nicola Zingaretti sia per Luigi Di Maio (ma soprattutto per i rispettivi elettori). E così, se domani ci fosse il matrimonio tanto agognato dall’Avvocato del Popolo, verrebbe a cadere in un colpo solo l’utopia anticasta da cui è nato il MoVimento e la speranza del Partito Democratico di rappresentare la sinistra ripartendo dalle istanze storiche del mondo del lavoro. Quel “mai coi Cinquestelle” di Zingaretti e quel “mai con il Partito di Bibbiano” di Di Maio rimbombano forte come non mai in queste ore mostrando la disperazione di chi ha pronunciato queste frasi per poi rimangiarsele.
L’elettore grillino, che si era iscritto ai Cinquestelle per aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, riceverà a casa la tessera del PD mentre l’elettore di sinistra, tronfio della propria storia basata sul primato della politica e con la puzzetta sotto il naso, si troverà a braccetto con quella marea ruttante e trasudante ignoranza rappresentata dal mondo grillino. La fine delle ragioni fondative di entrambi i partiti lascerà il campo al “Polo della paura”: paura di perdere le elezioni, paura di non avere idee, paura di leggere la realtà e trovarla diversa dalle proprie convinzioni, paura di mostrare il nulla che c’è dietro il logo del proprio partito al netto di qualche slogan più o meno riuscito.
Il “Polo della paura” si posa su due pilastri: la frustrazione pentastar di aver avuto tutto il consenso necessario per fare la rivoluzione senza saperla fare, unito allo psicodramma democratico di vedere il potere come unica meta da raggiungere a tutti i costi, facendo di ogni sconfitta elettorale motivo per un attacco isterico, manco fossero tutti della Juve. Due debolezze non fanno una forza. Mai.
Aggiornato il 24 agosto 2020 alle ore 12:11