Dietro ai numeri del Recovery fund

In questi giorni i giornaloni si sono divertiti a dare i numeri sul cosiddetto Recovery fund. La stragrande maggioranza dei commentatori – senza darlo troppo a vedere – ha elencato una santabarbara di dati e di circostanze nell’intento di salutare con tono trionfalistico il risultato italiano. Il mainstream ha acriticamente battezzato il risultato europeo come una specie di tana libera tutti, tirando la volata al governo giallorosso che ci ha portati in Paradiso. Senza tediare il lettore sciorinando numeri che in parte già conosce, ci teniamo a sottolineare che riconosciamo e salutiamo con favore l’ottimo risultato diplomatico ottenuto da Rocco Casalino e Giuseppe Conte. I Fred e Ginger delle trattative hanno spuntato un egregio colpo se solo immaginiamo le posizioni oltranziste di partenza dei cosiddetti Paesi frugali che non volevano concedere nemmeno un centesimo ai “terroni europei”.

Ma una vittoria diplomatica non coincide sempre con una vittoria economica: se da un lato l’Italia ha fatto rimangiare ai frugali tutto il veleno sparso in questi giorni, dall’altra è vero che l’Italia prenderà più prestiti e meno sussidi rispetto a quanto atteso. Se da un lato è vero che noi prendiamo ottanta miliardi di fondi perduti, dall’altro è vero pure che – dal 2028 – metteremo cinquantacinque miliardi nel budget europeo con un netto nel lungo periodo di venticinque miliardi a nostro favore. Se da un lato è vero che i cordoni della borsa europea si sono finalmente aperti, dall’altro è anche vero che i fondi arriveranno a condizione che l’Italia presenti un piano di riforme gradito a Bruxelles (le pensioni, la patrimoniale, le imposte di successione o cos’altro vorrà in cambio Bruxelles?). Se è vero che finalmente la politica economica europea diventa espansiva è anche vero che domani la politica monetaria della Bce potrebbe diventare restrittiva (addio Quantitative easing e protezione dei titoli?).

Se da un lato abbiamo ridotto al silenzio gli olandesi, dall’altro gli olandesi potranno bloccarci le erogazioni se solo denunceranno a Bruxelles la mancata applicazione da parte dell’Italia delle riforme annunciate (è prevedibile che – come al solito – l’Italia annunci riforme che alla fine fingerà di fare). Se da un lato la trattativa è stata un successo, è anche vero che dall’altro lato saremo obbligati a spendere il 70 per cento dei fondi in tempi strettissimi (pena la revoca): ve la immaginate l’Italia che realizza un’opera in due anni tra disciplina degli appalti, veti ambientali, sovraintendenze, valutazioni di impatto, timbri, burocrazia e menate varie? Inoltre, se da un lato ci sono erogazioni a fondo perduto, dall’altra ci sono prestiti che equivalgono a indebitamento e cioè l’ultima cosa che un Paese con il nostro debito pubblico deve accumulare.

Ma la paura vera è relativa alla qualità della spesa: come potrà un governo – che ha prodotto il bonus monopattini e che vuole comprare i banchi di scuola cinesi con le rotelle – allocare in maniera efficiente il denaro ricevuto? Il timore è che una potenza di fuoco così notevole si disperda in mille rivoli inutili, in mille mancette. La storia recente d’altronde va in questa direzione. Volendo dare un giudizio complessivo sul Recovery fund, a noi pare che somigli tanto agli Eurobond di Giulio Tremonti (appesantiti da un meccanismo iper burocratico): sì proprio quegli Eurobond che per l’Europa erano veleno e per la sinistra italiana erano sterco del demonio. Come cambiano i tempi.

Aggiornato il 27 luglio 2020 alle ore 11:17