
Recovery Fund: debito comune o penalty? Qui, l’unica differenza è quella che gli arbitri sono più numerosi dei giocatori in campo. Per capire meglio di che cosa si tratta, in mancanza di una Fed-Ue gemellata a quella di Usa, Inghilterra, Cina e Giappone (in ragione dell’horror vacui di Germania e Frugali di condividere i debiti pubblici), sarà meglio esaminare sinteticamente il comunicato ufficiale del Consiglio europeo al termine della maratona bruxelloise che si è svolta dal 17 al 21 luglio. Diciamo subito che, sulla carta, l’Italia ha ottenuto quanto di meglio ci si potesse aspettare, date le condizioni disastrose del nostro debito pubblico. Però, va detto altrettanto chiaramente, che carità e pasti gratis appartengono a un’era di vinti in un’epoca in cui tutti si atteggiano a vincitori. Anche perché l’Italia, fino a non molto tempo fa secondo Paese manifatturiero dopo la Germania, può fare solo un sano mea culpa, per lo stato disastroso in cui si trova la sua economia da venti anni a questa parte. In verità, l’euro dovrebbe essere ricoverato alla Neuro, tanto è astruso e germanofobo rigorista il Trattato che lo sottende, preceduto da quell’altro nodo scorsoio denominato Maastricht. Per noi, il vero Recovery, se mai ne avessimo avuto davvero il coraggio, sarebbe stato quello di mettere sul piatto della bilancia la Spada di Brenno di Paese fondatore, dicendo: “O si cambiano i Trattati, o ricominciamo da soli con tutti quelli che vorranno stare con noi, per rifondare un’Europa 2.0”. Magari, con un euro 2 e una mini Banca centrale, se non addirittura chiedere a Donald Trump di entrare a far parte dell’area del dollaro, affittandogli per cento anni la Sicilia, come accadde nel caso di Hong Kong.
Dunque, dicevamo del comunicato del Consiglio europeo, datato 21 luglio, in cui per la prima volta si creano i famosi Eurobond per combattere le conseguenze della terribile crisi simmetrica post-Covid. Ovviamente, essendo un timido passo, che non ha nulla a che vedere con la dimensione degli interventi già attuati dalla Fed e dalla Banca centrale cinese nelle rispettive economie, la montagna delle liti e dei cordoni sempre stretti delle borse degli Stati nazionali ha messo sul tavolo 750 miliardi di euro, suddivisi in: 360 miliardi di loans, prestiti che, però, non vengono contabilizzati come debito pubblico degli Stati beneficiari, visto che si tratta di debito comune della Ue; 390 miliardi di euro di expenditures, donazioni, da non restituire solo in apparenza, visto che, comunque, gli Stati che li ricevono si fanno garanti assieme a tutti gli altri, con i loro Pil nazionali, per la restituzione del capitale e degli interessi nei confronti degli investitori internazionali che presteranno denaro alla Ue. La restituzione del debito comune è prevista non oltre dicembre 2058, con la possibilità di anticipare quote dovute in funzione di risparmi o di nuove risorse del Bilancio pluriennale della Ue. Comunque, in ogni caso, la quota di restituzione del capitale per ciascun anno non dovrà eccedere il 7,5 percento dei 390 miliardi di euro di donazioni (punto A8 dell’accordo). Per il successivo punto A9, in base a comprovate esigenze, il tetto delle risorse proprie della Ue può temporaneamente essere aumentato fino allo 0,6 percento per coprire sopravvenute esigenze di indebitamento comune. QRispetto a queste ulteriori risorse, tuttavia, per non aggravare i passivi degli Stati membri, formeranno oggetto di compensazioni successive.
Il progetto di Ursula Von der Leyen, approvato dal Consiglio dei capi di Stato e di Governo, collega l’NGEU (Next Generation Eu) al Mff, Multiannual Financial Framework (o Bilancio pluriennale della Ue con durata settennale). Sarà poi la Budgetary Authority (in pratica, l’Eurogruppo dei ministri delle Finanze e dell’Economia) della Ue a esercitare sui 390 miliardi di euro di expenditures il relativo controllo politico (ancora da definire nelle sue modalità), di concerto con Parlamento, Consiglio e Commissione europea. La formalizzazione degli impegni giuridici, sulla base dell’Ngeu e dei programmi operativi presentati dagli Stati membri che richiedono i sussidi, avverrà entro il 31 dicembre 2023, mentre i relativi pagamenti saranno erogati entro il 31 dicembre del 2026, quando avrà cioè termine l’attuale bilancio pluriennale. Il 70 percento dei grants dell’Rff (Recovery and Resilience Facility, pari a 672 miliardi di euro, suddivisi in 360 miliardi di expenditures e 312,5 di loans) verrà erogato nel biennio 2021/22, mentre il restante 30 percento sarà versato entro il 2023. Di regola, il massimo volume di prestiti concesso a un singolo Stato richiedente non potrà superare il 6,8 percento del suo Pil nazionale (circa 120 miliardi di euro per l’Italia).
Dai numeri, però, passiamo alla sostanza politica di cui un Paese improgrammabile come il nostro deve avere sincero terrore, data la sua irredimibile propensione allo Stato-Provvidenza che, secondo le più accreditate teorie assistenzialiste giallorosse, dovrebbe entrare nell’economia e nel capitale delle imprese private come ai bei tempi del socialismo reale. La presentazione dei piani nazionali di Recovery and resilience è sottoposta al parere della Commissione, che decide entro due mesi dalla relativa presentazione. E qui arrivano i primi dolori dell’incosciente giovane Werther: il piano deve essere coerente con le specifiche raccomandazioni-Paese formulate dalla Commissione tenuto conto delle seguenti, tre finalità comuni: rafforzamento della crescita economica potenziale; creazione di nuovi posti di lavoro; capacità di ripresa (resilience) economico-sociale. L’approvazione definitiva dei piani, sulla base del parere della Commissione avviene entro quattro settimane dalla presentazione della relativa proposta, ed è di competenza del Consiglio europeo che decide con atto formale a maggioranza qualificata, basandosi sul pre-requisito dell’effettivo contributo dei suddetti piani alla green economy e alla transizione digitale. Il pagamento delle quote richieste, però, è condizionato al “soddisfacente” raggiungimento degli obiettivi-cardine (milestones) e delle finalità (targets) previste.
In merito, la Commissione chiederà il parere del Comitato economico e finanziario (Cef) della Ue. Ed è lì che si cela il primo dettaglio diabolico, alla Mark Rutte. Se non si dovesse trovare un accordo in seno al Cef, nel caso che in via eccezionale uno o più Stati membri ritenessero che si fosse in presenza di gravi deviazioni rispetto alle milestones e ai targets prefissati, possono chiedere al presidente del Consiglio europeo di riportare la questione in seno al massimo organo politico della Ue, che deciderà entro e non oltre tre mesi sulla base dei Trattati vigenti. Ecco: immaginate i trappoloni che si preparano a chi come noi è in grado di inceppare con i veti reciproci ogni futuro processo di riforme strutturali.
Aggiornato il 22 luglio 2020 alle ore 13:40