II vicesegretario del Pd Andrea Orlando, che non ha lesinato di far ascoltare la sua voce sui problemi della giustizia e che al cospetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, propugnatore di prescrizione e legge Spazzacorrotti, appare vieppiù – ancorché né avvocato né laureato in giurisprudenza – campione di garantismo e moderazione, gli avrà rimproverato di aver lasciato per troppo tempo nel cassetto, l’unico gioiello partorito da sua iniziativa di convocazione degli Stati generali della giustizia, ad inizio scorsa legislatura, cioè ci riferiamo a quella riforma dell’ordinamento penitenziario, ancorché organicamente delineata, rimasta lettera morta per ragioni di convenienza politico-elettorale e non riproposta dal Conte bis.
Orlando certo non disdegna che il suo successore, quantomeno, dopo averla integrata e riadattata, abbia presentato come nuova, un progetto riformatore, di corto respiro, già perlopiù esistente, cui ha aggiunto negli ultimi giorni l’orpello delle “quote rose” o della “preferenza di genere” per assicurare la presenza di donne. A ben vedere, però, ad onta di annunci mediatici e solenni proclamazioni, il disegno di legge delega nient’altro è che la versione riveduta e corretta di un progetto presente in via Arenula, ora additato quale “Grande Riforma”, capace di assolvere a funzione di catartica rigenerazione del Csm. Oblitera il ministro che tale progetto, per quanto levigato ed edulcorato, non è minimamente destinato a intaccare e tantomeno ad estirpare il pernicioso fenomeno della degenerazione correntizia nei processi decisionali dell’organo di autogoverno, soprattutto allorquando procede a scegliere i titolari di incarichi direttivi.
Come ha ricordato il professor Giacomo Di Federico, già membro laico Csm (cfr. articolo Così il Csm ha cancellato il merito dalla magistratura, Il Riformista dell’11 giugno 2020, pagine 6/7), il Csm ha reiteratamente e – iniziando dal decennio 1968.1977 a ridosso delle nefaste legge Breganze e Breganzone (1966-1973) – in maniera sistematica disapplicato parte significativa della disposizione dell’articolo 105 della Costituzione, secondo cui “spettano secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.
Ebbene l’insigne studioso, con ultraquarentennale esperienza di ricerca comparata sui sistemi giudiziari, ritiene che la principale ragione per cui le correnti siano un fattore rilevante e di decisiva importanza, in ogni modalità decisoria del Csm, risiede proprio nel fatto che dalla seconda metà degli anni 60, l’organo di autogoverno ha di fatto svuotato di significato tale attribuzione, quasi a non volerla applicare, smettendo di procedere a promozioni meritocratiche ed invece cedendo allo “automatismo gerontocratico” per l’avanzamento di carriera dei magistrati.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta, il Csm ha smantellato le preesistenti e competitive valutazioni di professionalità, dando a tutti i magistrati valutazioni positive in base a mera anzianità, con conseguente automatico passaggio da una classe stipendiale all’altra più elevata e contestuale miglioramento quindi del trattamento giuridico-economico in godimento, senza alcun screening di professionalità. Promozioni automatiche ed indiscriminate per tutti o quasi: le cifre sono impietose, giacché le valutazioni negative – di regola solo momentanee, comportanti il mero rallentamento dell’avanzamento per periodo più o meno lungo, recte breve, ma non l’arresto permanente in classe di stipendio di provenienza – si sono attestate tra lo 0,5 e lo 0,9 (in prativa i “rallentati” su 8mila appartenenti all’intera magistratura, oscillano tra 40 e 70 giudici, gli unici assoggettati a lieve ritardo in progressione di carriera e stipendio).
Solo in Italia capita che tutti i magistrati siano “altamente qualificati e di spiccata diligenza”, senza esser sottoposti ad alcuna valutazione di professionalità; l’assurdo che tale valutazione viene presa, non si sa bene in base a quali riferimenti, anche per magistrati fuori ruolo o in aspettativa parlamentare per più mandati (emblematici i casi narrati da Mauro Mellini e Stefano Livaidoti Magistrati l’ultracasta, della dottoressa Elena Paciotti, presidente Anm e poi Europarlamentare, e anche di recente della vicenda senatrice Anna Finocchiaro di Catania, che ha riportato, per tutto il lungo periodo di svolgimento mandato parlamentare, sempre valutazioni entusiastiche, per poi collocarsi a riposo, dopo il denegato distacco in via Arenula, non volendo tornare a indossare la toga corrente).
I magistrati in servizio in Francia e in Germania, che hanno un trattamento stipendiale di ingresso inferiore a quello italiano, sono periodicamente sottoposti – a garanzia di qualità ed efficienza loro prestazioni – a scrupolose valutazioni selettive di professionalità, durante l’intero arco di loro permanenza in servizio, e grazie all’operatività di tale filtro meritocratico, solo un numero assai limitato e vagliato raggiunge i vertici della carriera. In presenza di graduatorie di merito, generate da siffatte valutazioni, l’ambito di apprezzamento discrezionale demandato al Csm, che spesso sfocia nell’arbitrio essendo condizionato dall’appartenenza correntizia, dagli appoggi reperiti e da patti trasversali, se non da bieca logica dello scambio di favori (do ut des), risulterebbe drasticamente limitato ed il potere decisionale del Csm vincolato al rispetto dei rigorosi criteri di legge e dei principi costituzionali, in assegnazione degli incarichi direttivi e fuori ruolo, onde prescegliere i migliori e i più idonei alla singola carica.
Invece in Italia, in assenza dell’operatività di tali imprescindibili meccanismi selettivi, la meritocrazia è offuscata, la progressione in carriera livellata, la qualità dei magistrati titolari di posti apicali proletarizzata, secondo la dinamica inesorabile della curva di Gauss ( a capello di carabiniere”, con allargamento base e smussamento al ribasso della punta ), con la conseguenza nefasta di risulta che l’effettiva riuscita delle candidature previste per posti direttivi dipenda non già dalle condizioni di partenza (curricula, esperienze avute, risultati conseguiti, attitudini dirigenziali) bensì dall’appoggio rinvenibile in seno alle correnti del Csm e all’intermediazione del Luca Palamara di turno. Da fine anni Sessanta, il termine stesso di promozione è divenuto lessicalmente desueto, tanto da scomparire dalle decisioni e dai verbali del Csm, cosicché in forza di tali decisioni consiliari “frutto della necessaria mediazione” (ipse dixit Palamara al conduttore televisivo Massimo Giletti in ultima trasmissione su La7, Non è l’Arena di domenica 7 giugno 2020), persone mediocri si ritrovino ad essere assegnatarie di migliori posti o addirittura di prestigio, con provvedimenti “tirati” ispirati al favore correntizio, recanti motivazioni insufficienti o contraddittorie.
Qui si apre uno scenario che, se non fosse unico da autentica commedia italiana, risulterebbe grottesco ed inquietante. Essendo tali provvedimenti, non supportati da valutazione di merito certa, dal decisum opinabile, possono esser impugnati dai candidati che si sentano ingiustamente pretermessi dal posto assegnato, innanzi al Giudice amministrativo (ricorso al Tar; appello in Consiglio di Stato), con le prevedibili conseguenze di generazione di incertezza e sfiducia; Sempre il professor Federico compara la situazione dell’ultimo concorso per posti direttivi in cassazione del 1977, ove non ci furono ricorsi, con il proliferare di un crescente contenzioso – circa 780 ricorsi, durante il quadriennio della sua consiliatura al Csm – rimarcando adeguatamente che da allora detti ricorsi investivano nomine a posti di assoluta preminenza presso la Suprema Corte (primo presidente Cassazione; presidenti titolari di n.2 sezioni; procuratore generale aggiunto), posti cioè ricoperti da due dei tre membri di diritto Csm, con un disdicevole andazzo senza pari in Europa.
Come se questo scenario inquietante non bastasse, capita sovente che gli interessati dopo aver ottenuto dagli organi della giustizia amministrativa il giudicato di annullamento della nomina erronea, debbano attivare il giudizio di ottemperanza innanzi al competente Collegio, in quanto pur di fronte a pronuncia irrevocabile il Csm si ostini, spesso e volentieri, a non dargli “spontanea” esecuzione come son tenute tutti gli altri uffici delle pubbliche amministrazioni, adducendo argomenti infondati e speciosi. Per non dire poi, quando il Csm per sottrarsi all’esecuzione del giudicato, con chiari intenti ostruzionistici o dilatori, si concede il lusso di sollevare – nonostante sia inequivocabile il riparto delle rispettive competenze costituzionalmente delimitate – conflitto di attribuzioni tra poteri dello stato, innanzi alla Corte costituzionale! Sono i membri del Csm, cioè giudici rappresentanti di altri giudici che devono assicurare al cittadino il servizio della giustizia, non intasarlo con beghe pretestuose o giochi di potere.
E pensare che ogni giudice, come potere diffuso, è legittimato a sollevare conflitto di attribuzione, ma c’era una disposizione – a quanto consta ora abrogata –che quando lo faceva senza una parvenza minima di plausibilità doveva essere suscettibile di procedimento disciplinare da parte del Csm! Pertanto il Csm ha perso ogni credibilità, anche nella sua sezione disciplinare di fronte alla perniciosa pervasività delle disfunzioni e delle degenerazioni denunciate. Il Csm verminaio, cloaca, o più semplicemente luogo di costante intermediazione politica non è in grado di assolvere alla sua funzione istituzionale, nella sua attuale composizione deve esser sciolto e poi ricostituito con diverso sistema elettorale, prevedibile con decreto legge ricorrendo in circostanza tutti i requisiti della straordinaria necessità ed urgenza ex articolo 77 della Costituzione. All’uopo Bonafede asserisce che la sua riforma prevede “un meccanismo per garantire in un’ottica di eliminazione del carrierismo, che solo il merito (sic!) sia al centro dei criteri con cui si procede nelle nomine e nell’avanzamento delle carriera”. Ma rispondendo l’11 giugno scorso al “Question time” al Senato, ha riconosciuto che l’esigenza della riforma deriva dal fatto che “la credibilità e il prestigio della magistratura sono state duramente colpiti dagli eventi in quel contesto. Siamo al punto di non ritorno, un intervento netto e profondo, a tutela dei cittadini e della stragrande maggioranza della magistratura che guarda con sdegno a queste degenerazioni, non è più rinviabile”. Quis custodiet custodes? ministro Bonafede il suo approccio al problema è riduttivo ed ingenuo, soprattutto nell’invocare enfaticamente il merito senza porsi il problema di attuare le promozioni per merito imposte dalla Costituzione.
Allarghi i suoi troppo ristretti orizzonti culturali e riconosca che la formazione manichea che l’ha portata sin ora a dividere i cittadini in buoni e cattivi, colpevoli e innocenti, apprezzabili e deontologicamente disdicevoli, senza chiaroscuri e sfumature di grigio, non rappresenta di certo il bagaglio giusto per affrontare compito così impegnativo. Si riparta dalla constatazione della disapplicazione degli articoli 105-97 della Costituzione da parte del Csm, onde assicurare il merito nelle promozioni; si constati che la politica di promozione generalizzata di tutti i magistrati senza selezioni valutative, portata avanti per troppi decenni dalle correnti del Csm, alimenta il perpetuarsi di intese tra loro a scopo clientelare-associativo; Si ammeta che alcuni membri e a volte lo stesso ex vicepresidente (Giovanni Legnini) in varie circostanze hanno tenuto condotte illecite, non solo sul piano deontologico, ma di strumentalizzazione eversiva della funzione. Infine ci si convinca che gli attuali componenti Csm, se son obbligati a promuovere indiscriminatamente tutti i colleghi, lo fanno per non dover bocciare se stessi. L’unico segno di tangibile rinnovamento, percepibile da quell’opinione pubblica ai cui occhi i magistrati devono non solo essere ma anche apparire imparziali, restano le dimissioni, spontanee o indotte dal capo dello Stato. Il ministro della Giustizia che ha sempre dato spazio ed alimentato la cultura del sospetto, nel presente frangente non può non concordare con illustre consigliere Piercamillo Davigo che “non bisogna aspettare le sentenze” men che mai il giudicato, ma bisogna agire subito. Infine, rammentando le asserzioni dapprima di Corrado Carnevale (“il giudice italiano applica la legge e viola la Costituzione”) e poi di Francesco Cossiga: “le funzioni politiche devono restare del tutto estranee al ruolo del Csm” – ora in Dialogo sulla Giustizia, Macerata 2003 – si potrà costatare che “il Csm disapplica Costituzione e legge”. Motivo per cui il Csm va prima sciolto o “dimissionato” e poi riformato, in conformità a risultanze di nostra ricostruzione sistematica dei poteri presidenziali sul Csm in crisi, occasionata da commento critico a nota quirinalizia del 28 maggio scorso (L’Opinione, edizioni di mercoledì 3 giugno e giovedì 4 giugno scorsi); prospettazione singolarmente avallata dall’ex presidente della Camera Luciano Violante (ribattezzato “piccolo Vysinskij” dal Picconatore, con icastica locuzione spesso ripresa da Mauro Mellini, ex membro laico Csm e storico “garantista impenitente” d’estrazione radicale) che in recentissima stimolante intervista, ha lanciato la proposta di scelta del vicepresidente direttamente da parte del capo dello Stato, per evitare che “ogni consiliatura nasca con uno scambio che legittima tutti quelli successivi, tra le correnti e tra queste e la componente laica”, confermando la natura prevalente di delegato del capo dello Stato del vicepresidente Csm, con tutte le implicazioni conseguenti. Sempre Violante ha ricordato che “non è una legge elettorale che può risolvere” i problemi di disfunzionamento e politicizzazione dell’organo di autogoverno della magistratura, infatti “il Csm l’ha cambiata cinque o sei volte (si noti lo pseudo lapsus, non il legislatore su consiglio del Csm, ma il Csm quale legislatore in proprio sul sistema elettorale, argomento trattato da Interna corporis). Si è cercato di estendere la platea degli eleggibili, poi quella degli elettori, poi di rivedere le regole, da proporzionale a maggioritario e viceversa; ma gli elettori sono diecimila, un paesino, e mettersi d’accordo è sempre possibile. Bisognerebbe guardare ad altro” (Panorama n° 24 del 10 giugno scorso, pagine 23-26, intervista di Emanuela Fiorentino). Per finire è bene tornare a segnalare all’attenzione vigile sia del ministro della Giustizia che del capo di Stato – presidente Csm – cui non è mancata più di una occasione di riscontro dell’attuale vertiginoso calo di fiducia dei cittadini nella giustizia – tutte le implicazioni delle vicende capitate al Csm dal 2017 in poi, ed esortarli (come dice il professor Giorgio Spangher, su Il Riformista) a meravigliarsi non tanto dei gravi fatti in sé, quanto della circostanza che” pur essendo tutto quanto emerso perfettamente conosciuto, la fiducia si possa esser mantenuta così elevata”. Prodigio della proverbiale italica capacità di adattamento e al contempo del male endemico della carenza di reale capacità di indignazione civile.
Aggiornato il 17 giugno 2020 alle ore 12:56