
Potendo scegliere fra reddito di cittadinanza e un reddito da lavoro di poco superiore un disoccupato tende a scegliere la prima soluzione. In altri termini, i redditi assistenziali, come quello di cittadinanza, finiscono col rivelarsi incentivi alla disoccupazione. A esserne convinto è Ernesto Rossi, il quale, senza essersi mai vantato di aver abolito la povertà, in Abolire la miseria propose dei metodi senz’altro più efficaci per ridurla. Secondo Rossi il vantaggio differenziale che dei disoccupati potrebbero ottenere lavorando piuttosto che accettando un reddito assistenziale prossimo ai salari minimi, “non è per loro sufficiente a compensare la pena del lavoro” e questa circostanza può indurli a preferire una condizione “in cui dispongono di una minore quantità di beni per il consumo” pur di garantirsi la possibilità di ottenere questi beni “senza fatica e preoccupazioni”. In questo senso, anche il reddito di cittadinanza si rivela una sorta di “carità legale” che può togliergli ogni propensione al lavoro, fissandoli nelle condizioni in cui si trovano.
Così, individui che accettano tale reddito come espediente provvisorio rischiano di perdere a poco a poco “ogni decoro e ogni spirito”, imparano a vivere parassitariamente e finiscono col “trasmettere i loro gusti e le loro abitudini ai figli, che avranno pure indefinitamente bisogno dell’assistenza”. In questo modo, la miseria è destinata a estendersi e consolidarsi sempre di più, dimostrando che con simili sussidi “non si riesce in generale a raggiungere i fini che si perseguono”. All’inizio degli anni Quaranta, anche a seguito delle letture fatte durante il suo confino a Ventotene, Rossi aveva quindi perfettamente individuato i rischi principali che erano connessi con i redditi assistenziali. Oltre a quelli già menzionati, pensava ci fosse anche il rischio che il denaro dell’assistenza andasse speso in bevande alcoliche e in gioco d’azzardo piuttosto che “nel miglioramento dell’alloggio, del vitto e del vestiario, nel rispetto delle regole igieniche più elementari, nella buona educazione dei bambini, nell’alleggerimento del lavoro delle donne e dei ragazzi, nelle cure dei malati e degli invalidi”.
Era altresì convinto che non si potessero scaricare i costi dell’assistenza sulle imprese, perché questo si sarebbe tradotto in una sorta di “multa sull’occupazione”: quanti più operai le aziende private riescono ad occupare e tanto più gli imprenditori dovrebbero pagare. In questo modo gli imprenditori sarebbero indotti a “ridurre al minimo le maestranze, sostituendo, quando possono, la manodopera col capitale tecnico, allungando la giornata di lavoro con delle ore straordinarie e preferendo gli operai più qualificati, per i quali contributi risultano una minore percentuale rispetto ai salari”. Se anche le imposte potessero colpire solo i redditi netti, comunque “diminuirebbero sempre la produttività di tutto il sistema economico”, perché costituirebbero “delle multe sul successo”, così da rendere “meno conveniente lavorare e risparmiare, investire risparmio in forma capitalistica”. Per evitare tutti questi inconvenienti, per abolire la miseria Rossi propone “di dare soccorsi in natura”, che oltre ad avere il vantaggio di non alterare il meccanismo della concorrenza non rischiano di provocare troppi sprechi di denaro pubblico.
Questi aiuti sotto forma di beni di consumo primari costituirebbero una soluzione efficace per fornire assistenza a chi è senza lavoro, ma potrebbero rivelarsi efficaci anche per integrare i redditi più bassi, dato che Rossi non trova efficace nemmeno l’idea di un salario minimo: stabilire per legge un salario minimo nazionale non equivale a mettere tutti gli operai in condizione “di guadagnare un simile salario. Se significasse ciò, da molto tempo la miseria sarebbe scomparsa dalla faccia della terra. Anzi non ci sarebbe alcun limite alla possibilità di un miglioramento delle condizioni dei lavoratori: basterebbe aumentare indefinitamente l’altezza del salario minimo”. Inoltre, “vietare agli imprenditori di pagare per un certo lavoro un salario inferiore ad un certo minimo vorrebbe dire escludere da esso tutti coloro che avrebbero una produttività troppo bassa per arrivare a tale minimo”, col risultato finale di escludere dall’attività produttiva una parte consistente dei lavoratori. Sia il reddito di cittadinanza, sia il salario minimo, sono dunque proposte inefficaci e il riproporle oggi non può che assumere un certo sapore demagogico. Ernesto Rossi – un socialista liberale che, sapendo di esserlo, era anche un utopista, ma “un utopista concreto”, come scrive Paolo Sylos Labini nella prefazione a Abolire la miseria – se ne accorse un’ottantina di anni fa, mentre oggi chi sostiene di aver abolito la povertà finge di non saperlo, insieme a tutti coloro che, avendo preso atto dell’evidenza del contrario, ancora fingono di credergli.
Aggiornato il 12 giugno 2020 alle ore 12:49