La cooperante internazionale Silvia Romano è stata liberata tra l’8 e il 9 Maggio, dopo lunghe trattative con jihadisti somali di Al-Shabaab che l’avevano rapita e che la tenevano prigioniera da circa 18 mesi. Era giusto liberarla ed è stata liberata, perché ogni cittadino deve sempre essere protetto dalla Stato quando la sua dignità, i suoi diritti fondamentali e la sua stessa vita sono messi in pericolo. È stato giusto farlo e il governo italiano lo ha fatto, senza fornire troppi dettagli sul come, cosa che, almeno in un primo momento, può essere comprensibile. Lo ha fatto – almeno questo risulta abbastanza chiaro – pagando un cospicuo riscatto. Il pubblico ministero Sergio Colaiocco, che ha interrogato Silvia dopo il suo rientro in Italia, ha aperto un’inchiesta e forse presto ne sapremo di più. Per il momento sappiamo solo che Turchia e Qatar hanno probabilmente giocato un ruolo di mediazione nella vicenda della sua liberazione e che lei ha dichiarato di essere stata trattata bene, di non aver subito violenze e di essersi convertita all’Islam spontaneamente, assumendo il nuovo nome di Aisha dopo aver letto il Corano. Le reazioni alla sua liberazione sono state diverse: alcuni si sono indignati per il fatto che è stato pagato un riscatto a dei terroristi assassini, che hanno fatto centinaia di vittime civili nella loro poco gloriosa storia; altri hanno festeggiato la liberazione di Silvia denunciando le riserve dei primi, spesso tristemente esplicitate in modo offensivo verso una ragazza già provata da 18 mesi di prigionia, in modo altrettanto offensivo.

A parte i toni irrispettosi e persino turpi che questo confronto a distanza ha talora assunto, colpisce però come il problema di ordine morale e politico posto dalla liberazione di Silvia-Aisha sia stato affrontato in modo quasi sempre liquidatorio e fazioso dalla maggior parte di coloro che ne hanno parlato pubblicamente. Il problema invece è molto serio, esiste da tempo e meriterebbe di essere affrontato in modo più sereno e razionale. Molti ricorderanno che la legge numero 82 del 1991, varata a seguito dell’aumento dei sequestri di persona a scopo estorsivo durante gli anni 70 e 80, stabiliva il sequestro dei beni appartenenti alla persona sequestrata e ai suoi parenti e affini per evitare che fossero pagati i riscatti e scoraggiare sequestri futuri. Quel provvedimento legislativo, che parve anche allora a molti iniquo e che suscitò polemiche e accese discussioni, spesso vere e proprie controversie tra la ragion di Stato e quella delle famiglie dei rapiti, riuscì comunque in effetti a contrastare in maniera abbastanza efficace la consolidata pratica criminale dei sequestri.

È chiaro infatti che, quando sono principalmente dei vantaggi economici a motivare i rapitori, eliminando tali vantaggi, o rendendoli meno facilmente conseguibili, si riesce ad esercitare un’azione disincentivante sulle loro motivazioni. Non dovrebbe dunque suscitare alcun scandalo che uno Stato cerchi di individuare delle procedure e delle norme per ottenere tale risultato e per non trovarsi costretto in futuro a dover versare ingenti somme di denaro a delle organizzazioni criminali. Purtroppo, invece, chi auspica un simile orientamento è spesso tacciato d’indifferenza verso le vittime dei rapimenti, verso i valori che ispirano la loro attività di volontariato, quando non addirittura di razzismo o d’islamofobia, come se simili disposizioni d’animo fossero necessarie per non voler finanziare con soldi pubblici dei terroristi criminali non molto diversi da Al-Qaida. Coloro che muovono questo tipo d’accuse a chiunque manifesti le proprie riserve circa l’opportunità di pagare dei riscatti a delle organizzazioni terroristiche sembrano non tener conto, per esempio, di cosa possono pensare di simili pagamenti i parenti delle loro numerose vittime; né sembrano portati a chiedersi quante persone in più potrebbero essere uccise anche grazie a quei quattro milioni che erano di tutti i cittadini italiani.

Perché in molti non si pongano un simile problema non è facile da spiegare: forse solo per superficialità, o indifferenza, oppure per un atteggiamento, questo sì subdolamente razzista, che li induce a considerare quelle vittime di serie B rispetto a quelle eventuali di nostri concittadini. In questo senso, presumendo cioè, e magari erroneamente, che quei soldi vengano utilizzati per fare stragi di cittadini africani piuttosto che di loro concittadini italiani, mentre accolgono entusiasticamente la notizia del pagamento del riscatto per liberare Aisha sembrano far proprio quel motto, “prima gli italiani”, che tanto sono soliti dileggiare e vituperare. Poiché, naturalmente, nessuno di loro potrebbe tuttavia mai prendere sul serio una simile spiegazione, dato che in tal caso dovrebbero ammettere di essere più razzisti di coloro cui solitamente attribuiscono quest’esecrabile disposizione d’animo, conviene non indugiare oltre sulla verosimiglianza di quest’ipotesi e tornare al problema fondamentale: è legittimo o no, dal punto di vista morale e politico, versare dei soldi a delle organizzazioni criminali per far liberare un ostaggio e salvare la sua vita, quando questo comporta il porre in condizione quelle stesse organizzazioni di fare ancora più vittime innocenti, anche dieci o cento volte più numerose? In virtù della premessa cui abbiamo fatto riferimento all’inizio di questa riflessione, e cioè che lo Stato ha il dovere di salvaguardare la vita e i diritti fondamentali di ogni proprio cittadino, sicuramente sì; ma alla luce di una prospettiva morale e politica più globale, e dunque meno implicitamente autoreferenziale, probabilmente no.

O perlomeno, lo Stato dovrebbe predisporre tutte quelle iniziative, sul piano normativo, organizzativo e diplomatico, per scongiurare che simili circostanze si possano ripetere, iniziando magari proprio col vigilare sui luoghi in cui le associazioni Onlus di volontariato vanno ad operare, segnalando quelle dove non può essere garantita adeguata sicurezza e fornendola invece, in accordo e coordinamento con i governi nazionali interessati, a supporto delle stesse attività delle Onlus dove sia possibile farlo. Soluzioni di questo tipo tutelerebbero forse un po’ meglio tutti: i volontari potrebbero operare rischiando di meno di essere rapiti e uccisi – dato che sono così numerose le zone in cui il loro intervento può risultare prezioso non è infatti necessario che scelgano proprio quelle in cui potrebbe rivelarsi più pericoloso per loro e per molti altri – e quello dei cittadini italiani a non veder destinare i loro soldi a delle organizzazioni criminali per mettere a repentaglio la vita di altri cittadini inermi di altri paesi, quando non anche la propria. Naturalmente poi ognuno continuerebbe a veder garantito il proprio diritto di andare dove vuole, ma sapendo che, al di fuori delle zone indicate come relativamente sicure, lo Stato italiano non s’impegna a cercar di garantire la sua incolumità, e soprattutto a farlo anche utilizzando denaro pubblico per pagare dei riscatti a organizzazioni terroristiche.

Aggiornato il 13 maggio 2020 alle ore 12:41