In difesa di Don Lino Viola e della libertà di culto

Ciò che è accaduto domenica scorsa 19 aprile in una frazione di Soncino, Gallignano, ha dell’incredibile, ma è l’esito, speriamo finale, speriamo non si raschi il fondo, di una china che si protrae da almeno cinquant’anni, ma che negli ultimi venti, o forse dalla scomparsa di Papa Karol Wojtyła, sta raggiungendo livelli spaventosi in termini di mancanza di rispetto della dimensione religiosa dei cittadini, purché, si badi bene, si tratti di religiosità cattolica e non di altra fede cristiana o di altra fede monoteista o politeista o altra tendenza religiosa tout court. Facciamo questa distinzione perché, come chi legge avrà facilmente intuito, ci si chiede in che modo sarebbe stata ripresa la notizia dell’interruzione di una funzione religiosa sui media se al posto di una piccola parrocchia di periferia ci fosse stata una moschea o altro edificio di culto e se al posto di Don Lino Viola, un pacifico parroco che dice messa da oltre cinquant’anni, ci fosse stato un Imam, o un Pastore Battista o dei Santi dell’ultimo giorno, o un qualsiasi altro ministro di culti che avrebbero potuto facilmente gridare alla discriminazione religiosa, o quant’altro.

Senza voler entrare in ricostruzioni storiche, più per motivi di spazio che di merito, occorre comunque ricordare che la Chiesa Cattolica, pur con percorsi aspri e travagliati, e molti suoi figli, per quanto talvolta anche critici nei confronti di alcuni aspetti e di alcune gerarchie vaticane della loro epoca (faccio riferimento al Secondo Dopoguerra), è stata uno dei principali fattori di democratizzazione della Repubblica Italiana ed è stata in grado di trovare saggi equilibri nella costruzione di alcune libertà fondamentali della persona, fra le quali le libertà di culto, sancite dall’articolo 19 della Costituzione italiana, “in forma individuale o associata e di esercitarne in privato o in pubblico il culto”. L’esercizio pubblico e in forma associata del culto cattolico è peraltro insito nel concetto stesso di ecclesia, almeno dopo il significato attribuito in Corinzi 12, 28, ma non solo. Non esiste “Chiesa” in modo disgiunto dal concetto di “comunità” e forse questo concetto è ancora più chiaro se si pensa che la “scomunica” è la condanna peggiore che possa essere data ad un cattolico, implicando essa l’esclusione dalla “comunione dei fedeli”.

Don Lino stava celebrando la messa e la messa è stata interrotta da un carabiniere su ordine di un sindaco. Su questo punto ho letto molte interpretazioni e notizie, tutte incentrate sulla legittimità dell’atto del carabiniere, che aveva fatto solo il suo dovere, che aveva ricevuto un ordine, etc., etc. Ma interrompere una messa non è un atto burocratico e basta. Si tratta dell’interruzione di un rito che celebra la perpetuazione del sacrificio di Cristo sull’altare della chiesa e questa perpetuazione si avvera nel momento della consacrazione. Momenti che sono stati violati con ogni evidenza dal carabiniere il cui intervento aveva, non gliene vogliamo fare una colpa personale, stava solo facendo il suo dovere, obbedire ad un ordine. Ma quante volte nella storia l’obbedienza cieca ad ordini così poco rispettosi dell’umanità ha portato a conseguenze che in estrema sintesi possono essere riassunte nel titolo di Hannah Arendt “La banalità del male”? No, cari lettori, non è un’esagerazione.

In quella chiesetta c’erano appena tredici fedeli, si dice tutti muniti di mascherina e a debita distanza interpersonale, che assieme a Don Lino pregavano per i loro recenti defunti a causa del Coronavirus. Pregavano per i loro defunti e li onoravano e commemoravano. Che tipo di violenza può essere stata per loro questa interruzione? Una violenza di governo, badate bene, che purtroppo vestiva le sembianze della divisa più prestigiosa che questo Stato rappresenta. I simboli sono molto importanti ed in casi come questo lo sono ancora di più. Per un cattolico questo è un sacrilegio, né più né meno. Ma è anche il codice penale a prevedere all’articolo 405 il reato di “Turbatio sacrorum”: “Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni. Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni”.

Don Lino è stato multato e, come ci risulta, è stato condannato pure dal vescovo di Cremona per non aver voluto, a nostro avviso legittimamente, interrompere la funzione. Non c’era davvero altra soluzione? Davvero tredici persone bene distanziate ed in chiesa durante una funzione sacra costituiscono un pericolo o si trovano in stato di pericolo tanto da dover essere trattate così? Davvero dobbiamo constatare che la burocrazia in Italia è diventata così pervasiva da comprimere anche le libertà religiose? E davvero dobbiamo constatare che a queste forme di ottusa burocrazia si conformano anche dei vescovi? Perché questa sconfessione? Perché questa sproporzione? Questa vicenda potrebbe rappresentare una delle pagine peggiori che questo periodo di Coronavirus, ma soprattutto il tipo di gestione che questo governo ha impresso, ci sta consegnando. E credo non sia un caso che proprio dalla parte liberale e laica, o ciò che ne rimane, di questo Paese siano in fondo arrivate le poche parole a favore della libertà di culto e, mi duole dirlo, poco da parte cattolica e anche cattolico-liberale. Molti si chiedono o si lanciano in previsioni su come saremo alla riapertura dopo il lockdown e in tanti affermano che saremo migliori. Io non credo. Non lo saremo, saremo tutti meno liberi, perché la rinuncia alla libertà è entrata dentro troppi animi.

Aggiornato il 22 aprile 2020 alle ore 11:18