
Anche quei pochissimi rimasti come il ministro della Salute Roberto Speranza o il suo ascoltato consulente Walter Ricciardi, che continuano a parlare di un “modello italiano” esportato in tutto il mondo, tradiscono un certo imbarazzo quando ribadiscono che la gestione dell’emergenza sanitaria in Italia “è stata un esempio per molti stati europei e mondiali”.
In effetti, c’è poco di cui andare orgogliosi perché, in questo Paese, il numero dei decessi ha superato la preoccupante soglia delle 23mila unità. Anche il numero dei contagi ha superato la soglia, diremmo, a questo punto, “psichiatrica” di oltre 175mila casi. È evidente, quindi, che siano stati commessi degli errori sia a livello centrale che periferico, perché, in materia sanitaria, al governo spettano le linee guida, ma le Regioni hanno comunque competenze concorrenti.
In effetti, un laureato in Scienze Politiche come Roberto Speranza non è proprio la figura ideale da mettere al vertice del ministero della Salute già in tempi, per così dire, “normali”, in tempi di Covid-19, diventa ulteriormente difficile affrontare situazioni di emergenza non avendo alcuna competenza tecnica. Anche se non è detto che un magistrato, solo per fare un esempio, sia la figura più adatta a fare il ministro della Giustizia, tuttavia, è evidente che almeno saprebbe dove mettere la mani, perché dotato di autonomia decisionale.
In ogni caso, varato il Conte bis, il dicastero “strategico” della Sanità è stato affidato a Roberto Speranza. “Una persona per bene”, parola di Pier Luigi Bersani, capo politico del suo partito, che, in una recente intervista, ne ha messo in risalto la indubbia moralità, non potendone, ovviamente, difendere le competenze tecnico-scientifiche. Non casualmente, il suo primo atto, appena scattata l’emergenza, è stata la nomina a consulente di Walter Ricciardi, napoletano, ex attore, diventato, nel frattempo, un esperto in malattie virali di fama mondiale, membro dell’Oms, persona dall’occhio intelligente. Rebus sic stantibus, si può ragionevolmente ipotizzare che Ricciardi stia facendo da “guida” tecnica al ministro, poiché dotato delle necessarie competenze.
Senza attribuire responsabilità il cui accertamento spetta unicamente all’Autorità giudiziaria, tuttavia, la gestione complessiva dell’emergenza, sia centrale che periferica, ha ridotto l’Italia al primo posto in Europa per morti da Covid, seconda nel mondo solo agli Stati Uniti. Quindi, non è difficile prevedere, conoscendo le dinamiche interne, che la ricerca delle responsabilità penali e politiche occuperà le cronache giudiziarie per i prossimi 10 anni, superando, per interesse, forse anche l’inchiesta “Mani Pulite” e meriterebbe pure l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta.
Andranno inevitabilmente “analizzati” sia l’impietoso bilancio numerico, sia i provvedimenti adottati a tutela della salute pubblica e sia la fase comunicativa che, a tratti, è stata veramente imbarazzante. Ma, soprattutto, è l’adozione di misure di contenimento tempestive ed efficaci che avrebbe potuto raccontare un’altra storia. Infatti, le tappe di questo flop partono, paradossalmente, da un doppio successo e, cioè, dalla chiusura di Codogno e Vo’ Euganeo il 21 febbraio. In quella situazione il governo blindò subito le aeree dichiarandole “zona rossa”, ma, nonostante già dal 27 febbraio i contagi assediassero anche Alzano Lombardo e Nembro, piuttosto misteriosamente, non fu utilizzato lo stesso pugno duro impiegato a Codogno che aveva azzerato i contagi in poche settimane.
La mancata “zona rossa” in Val Seriana ha agevolato la progressiva estensione del contagio in Lombardia e nel resto del Paese ed è stata fronteggiata dai provvedimenti, deboli e tardivi, del 9 e del 12 marzo con cui il governo ha sostanzialmente dichiarato “zona arancione” prima la Lombardia e poi l’Italia intera. Stante il loro inevitabile insuccesso, il 22 marzo è stato adottato il “lockdown” con cui gli italiani sono stati invitati a stare tutti a casa.
Qualche dubbio suscita non aver separato, anche attraverso la requisizione di strutture alberghiere, i giovani dai meno giovani dopo averne censito i rispettivi nuclei familiari, per evitare che i giovani asintomatici fungessero da vettore per i familiari anziani rinchiusi coattivamente sotto lo stesso tetto. Lascia altrettanto perplessi che i pazienti sintomatici lievi siano stati messi in isolamento domiciliare in compagnia delle loro famiglie, con evidente rischio di trasmissione del contagio ai parenti che non potevano più nemmeno uscire di casa. Qualche perplessità suscita anche non avere utilizzato da subito i test sierologici ed i tamponi per isolare gli asintomatici, considerato il successo della misura ottenuto in Veneto dove è stata fortemente voluta dal Governatore Luca Zaia e del consulente Andrea Grisanti, i quali, secondo loro, hanno avuto successo anche perché non si sono attenuti alle direttive ministeriali.
La triste realtà è che, a distanza di 5 settimane dall’inizio del martellante “state a casa”, ripetuto h 24 dai media - come “Obbedite” nel film “Essi Vivono” di John Carpenter - la curva dei nuovi contagi, anche se rallentata, non si è ancora del tutto “arrestata” ed il totale dei decessi è arrivato a 23mila. Quindi, un flop, anche se non si può comunque ignorare che il virus ha provocato 20mila decessi anche in Spagna, 19mila anche in Francia, 16mila nel Regno Unito, 5mila in Belgio (Paese da record nel rapporto tra decessi e popolazione), 5mila in Germania, 1.400 nella piccola Svizzera, quindi, ha messo in crisi anche la tenuta sanitaria dei principali Stati europei, con l’aggravante, per loro, che il nostro Paese aveva già fatto da cavia sotto il loro naso.
Tuttavia, un buon esempio da seguire si rinviene non troppo lontano, in Israele. Infatti, partendo dai numeri, i decessi da Covid-19 sono 170 ed i contagi sono pari a 13mila unità. Questi numeri vanno rapportati alle più ridotte dimensioni dello Stato israeliano rispetto all’Italia, cioè, circa 10 milioni a fronte di 60 milioni e, quindi, se Israele avesse una popolazione numericamente pari alla nostra, la “media” si aggirerebbe intorno ai 1.000 decessi, numeri molto lontani dai nostri. Sin dalle prime fasi dell’emergenza, gli israeliani hanno insistito molto sulla protezione degli anziani, suggerendo alla popolazione di tenerli separati dai giovani. In particolare, il ministro degli Esteri Naftali Bennet ha bonariamente allertato che “nulla è più letale di un abbraccio tra nonna e nipote”. La semplicità è, da sempre, sinonimo di grandezza.
Inoltre, sono stati tra i primi a chiudere le frontiere, anche se il contagio è comunque penetrato ma era impossibile che non accadesse perché Israele è una rotta molto trafficata. Ma, soprattutto, ciò che ha fatto la differenza è stato l’uso della tecnologia per il tracciamento delle persone infette. Infatti, il governo, appena scattata l’emergenza, ha autorizzato il servizio segreto, lo Shin Bet, a tracciare, per 30 giorni, gli spostamenti dei cittadini per verificare se avessero frequentato luoghi di contagio oppure persone infette, al fine di individuare proprio i soggetti che avessero bisogno di quarantena anche in assenza di sintomi. Mediante l’uso di un database contenente dati sensibili sono stati controllati gli spostamenti delle persone incrociandoli con soggetti già risultati positivi.
Solo in coda a questo lavoro di intelligence, è stato “consigliato” di non uscire di casa se non per situazioni che lo impongono e, solo da pochi giorni, è stato anche ordinato di indossare la mascherina all’esterno. Quindi, mentre Israele ha utilizzato la tecnologia per tracciare i contagi al fine di risalire agli asintomatici positivi e metterli in isolamento, il governo italiano ha utilizzato i droni per sanzionare i furbetti che volevano andare a passeggio nei boschi. A conferma delle diverse velocità, l’applicazione “Immuni” per il tracciamento è stata approvata dal Commissario Domenico Arcuri qualche giorno fa, ma sarà pronta solo tra un mese. Ed anche secondo uno studio del London Deep Knowledge Group, Israele si colloca al primo posto nel ranking dei Paesi che hanno gestito al meglio l’emergenza.
Anche il Portogallo, Paese di 11 milioni di abitanti, sta reggendo bene con 700 decessi e 20mila casi. La situazione è mediamente sotto controllo anche nei Paesi europei dell’ex Patto di Varsavia, dove nessuno si è sognato di recludere le persone come avvenuto da noi. A titolo puramente esemplificativo, in Croazia si registrano 1.800 casi e 47 decessi, in Bulgaria 890 casi e 42 decessi, in Ungheria 1.900 casi e 170 decessi, in Polonia 9.200 casi e 360 decessi, in Repubblica Ceca 6.700 casi e 180 decessi, in Serbia 6.300 casi e 120 decessi, in Bielorussia, unico Paese europeo a non avere sospeso il campionato di calcio, ci sono 4.800 casi e 47 decessi.
Premesso che non c’è alcun motivo di dubitare dell’attendibilità di questi dati, tuttavia, la bassa mortalità, oltre che da politiche accorte, può dipendere da ulteriori fattori locali, tra cui l’età media meno alta rispetto all’Italia, dal minore inquinamento rispetto alla Lombardia o a New York, oppure da una diversa “vaccinazione” degli adulti. Nulla di consolatorio perché la situazione mondiale resta comunque grave, tuttavia, è importante riconoscere che molti governi stiano fronteggiando a testa alta la lotta al Covid-19.
Aggiornato il 20 aprile 2020 alle ore 14:23