La Destra liberale italiana si è interrogata nel convegno di Roma del 15 e 16 gennaio (organizzato insieme alla Lega, per iniziativa dell’onorevole Giuseppe Basini) sul futuro dell’Italia. In questo quadro, mi è stata chiesta una breve riflessione sul nostro modello di “Stato di diritto”. L’approccio liberale al tema non può che partire dalle lacune del presente e disegnare una prospettiva futuristica in chiave prescrittiva, giacché, se ci limitassimo a formulare un’ipotesi meramente descrittiva, dovremmo prendere atto della soverchiante forza della cultura politica illiberale, da gran tempo dominante in tutti i gangli della vita di relazione.
Pochi si sono accorti del nostro deficit di democrazia, appagati come sono della costituzione “più bella del mondo” e della formula dello “Stato di diritto” meravigliosamente coniugato con lo “Stato sociale” per ciò stesso che è fondato sul “lavoro”. In questa Repubblica, i cui organi sono giornalmente impegnati a “rimuovere gli ostacoli” al pieno dispiegarsi dell’uguaglianza di tutti i cittadini (articolo 3 della Costituzione), sono del tutto obliterate le questioni attinenti alla sfera intangibile dello ius privatorum e alla paritaria condizione dei cittadini e dei pubblici poteri. Abbiamo dimenticato un piccolo particolare: che la Magna Charta ha visto la luce proprio per limitare e delimitare il potere del Re e il problema non è mutato oggi per incanto, per la veste “repubblicana” piuttosto che “monarchica” del potere. Oggi come ieri dobbiamo contenere l’attitudine espansiva e prevaricatrice del potere pubblico nei confronti dei privati e il principio di legalità, nel quale in fondo si riassume la formula dello “Stato di diritto” modellato sul Rechtsstaat tedesco, non è da solo sufficiente ad arginare la potestà amministrativa, né a fondare il paritario rapporto privato-pubblico.
Ne fornisce la dimostrazione più lampante l’esistenza stessa dei Tribunali amministrativi regionali. Mentre il cittadino tutela i suoi diritti personali di fronte al e Giudice ordinario ottiene il risarcimento del danno derivante dall’atto lesivo dei suoi diritti; la sua libertà di iniziativa economica, sottoposta all’autorizzazione della pubblica amministrazione, non ha la dignità di diritto, ma assume la veste di “interesse legittimo”, tutelabile giudiziariamente solo innanzi al Tar. Orbene, il cittadino che adisce codesto Tar può invocare solo l’annullamento dell’atto illegittimo, ma non può ottenere alcun risarcimento del danno. Ciò accade perché il cittadino non gode del diritto – la cui lesione dà luogo al risarcimento – prima dell’atto amministrativo che lo fonda. In altri termini, la pubblica amministrazione non emana un atto ricognitivo del diritto del cittadino, bensì un atto fondativo-costitutivo.
E cosa accade se l’atto illegittimo viene annullato dal Tar? Niente di particolare: la Pubblica amministrazione può emanarne un altro similare, con qualche virgola di differenza. E cosa accade, se il cittadino si duole del silenzio della p.a., la quale per ipotesi rinvia alle calende greche un atto dovuto? Accade che il Tar annulla il silenzio, ossia annulla il nulla e il cittadino dopo l’annullamento del nulla può chiedere che sia emanato l’atto dovuto, forte della sentenza del Tar. Ma la Pubblica amministrazione può persistere nel suo silenzio; nel qual caso, il cittadino potrà chiedere che un commissario ad acta si sostituisca alla pubblica amministrazione. E alla fine del suo calvario questo cittadino otterrà magari l’agognato atto fondativo del suo diritto, ma non potrà chiedere alcun risarcimento del danno.
La natura costitutiva dell’atto amministrativo, in relazione alle facoltà di iniziativa economica del cittadino, agli occhi di un vero liberale, è un’aberrazione, non troppo dissimile da quella che si avrebbe, se l’iscrizione anagrafica fosse l’atto costitutivo della personalità dell’uomo. Il “vivente”, in mancanza dell’iscrizione anagrafica, sarebbe un individuo, non già una persona; la sua condizione sarebbe quella del fu Mattai Pascal descritta magistralmente da Luigi Pirandello; ebbene il cosiddetto “‘interesse legittimo”, la cui tutela è riservata al Giudice di annullamento che si chiama Tar, non è altro che Il fu Mattia Pascal del diritto, vivente e morto allo stesso tempo.
Al contrario, la versione anglosassone dello “Stato di diritto”, riassumibile nella formula del Rule of law, non conosce il sottodimensionamento della legittima facoltà di iniziativa economica del cittadino italiano, sottoposta all’alea dell’atto amministrativo in funzione costitutiva. E ciò spiega, in buona misura, l’enorme gap di dinamismo economico tra le società di diritto anglosassone e la nostra amata Italia, pervasa di cultura statalistica intrinsecamente autoritaria. Per esempio, il nostro Paese è l’unico al mondo, dove il permesso (o licenza) di costruire è chiamato “concessione edilizia”. Qui lo Stato (rectius la cosa pubblica) “concede” anche ciò che non è suo, come se la costruzione dovesse poggiare su un terreno demaniale; a significare che, senza la “concessione” pubblica, il diritto del cittadino semplicemente non è.
Negli ordinamenti rispettosi del Rule of law, di origine anglosassone, la Pubblica amministrazione e i cives sono posti sullo stesso piano; gli atti della pubblica amministrazione sono subordinati non solo alla legge, ma anche al diritto (law). In questa logica, tutti i diritti del cittadino, anche quelli patrimoniali, sono al di sopra della stessa legge, nel senso che la legge non può non rispettarli. In questa logica, il diritto di proprietà e la libertà dei cittadini sono intimamente connessi; in questa logica, la prima e fondamentale garanzia di libertà risiede nell’impossibilità dei poteri pubblici di invadere la sfera dei rapporti privati. Il contratto è legge tra le parti e lo Stato non può aggredire la libertà negoziale dei privati. I diritti a contenuto patrimoniale e i diritti di iniziativa economica sono tutelati alla stessa maniera dei diritti fondamentali della persona.
Ne consegue che l’autorità amministrativa, la quale omette, ritarda, impedisce illegittimamente l’esercizio delle facoltà di iniziativa economica del cittadino, convenuta davanti al Giudice ordinario, deve risarcire il danno economico cagionato. C’è da dubitare che tale obbligo di risarcimento costituisca un ottimo deterrente, in relazione a quei rinvii pretestuosi dei pubblici funzionari, magari finalizzati alla percezione della “mazzetta”, ben conosciuti da tutti gli italiani? In breve: in tutto il mondo anglosassone non esiste il Tar e nessuno si è mai accorto dell’assenza di un organo tanto importante. Stupefacente: milioni di persone non conoscono l’ambigua figura dell’interesse legittimo – che subordina il diritto soggettivo all’atto amministrativo, nelle more del quale vige solamente Il fu Mattia Pascal del diritto, confinato nel limbo dell’attesa – e proprio per questo vivono bene senza il Tar!
Per queste ragioni, la Destra liberale italiana immagina il futuro “Stato di diritto” italiano, come un Rechtsstaat che sappia recepire i principi fondamentali del Rule of law, rispettando la paritaria condizione giuridica dei cittadini e degli organi pubblici e recingendo l’area intangibile dell’autonomia negoziale dei privati.
Aggiornato il 21 gennaio 2020 alle ore 16:01