C’era, nei Codici penali di tutti i Paesi che li avevano adottati, un soggetto comune della difesa fattane dalle norme, in particolare contro la soppressione violenta, l’uccisione. Il più antico dei delitti risalenti ai figli di Adamo, a Caino: l’omicidio. Mentre per altri delitti contro la proprietà e gli altri beni variavano le figure ed i sistemi punitivi, di fronte alla soppressione della vita in tutti i Paesi uno era il titolo di reato, anche se, magari, ne variava la pena: reato di omicidio.
L’uomo è al centro del diritto. Anche, e soprattutto, quello penale. E non era cosa da poco, ovvia. C’era stata fino alla soglia dell’età Illuminista una diversità di trattamento non solo degli autori dei crimini, ma anche delle vite soppresse delle vittime: altra cosa l’uccisione di un nobile, di un cavaliere, altra quella di un villano. E altra cosa era l’esser colpevole della morte di un Cristiano, altra di quella di un Pagano, di un Ebreo. E così via con quelle variazioni sulla razza delle vittime che oggi, dopo averne visto l’esaltazione nella nuova barbarie nazista, pare non possano che farci rabbrividire al ricordo.
Omicidio: volontario, colposo, preterintenzionale. E “aggravato” o, magari, invece, con le attenuanti. Ma pare che questa fase legislativa legata al contesto di unicità della figura umana, sia arrivata alla fine. Se nessuno (che io sappia, almeno!) ha ancora pensato di distinguere nuovamente tra cavaliericidio e villanicidio, la lotta al sessismo, che, poi, anche in questo campo finisce per ripiegare in un sessismo alla rovescia, ha “aperto la crisi” dell’unità della persona umana come parte offesa dei più gravi reati.
Non che qualcuno abbia pensato di stabilire che il reato di “violenza carnale” non possa essere consumato che in danno di un essere di sesso femminile (il che, poi, non sarebbe neppure tanto assurdo) ma si è subito “aggredito” il primo (si fa per dire) dei delitti: l’omicidio. E lo si è “scorporato”, sdoppiato, istituendo così, nel linguaggio penalgiornalistico il “femminicidio”. L’aspetto più grottesco di questa “innovazione”, degna si direbbe di un ministro Alfonso Bonafede, è che, però non si parla, accanto al “femminicidio”, di “maschicidio”. Come se si ammazzassero solo donne! Intanto, su un piano diverso, quello, invece, del genere dell’attività che provoca la morte, si è creato, stavolta ufficialmente, il reato di “omicidio stradale”. Che non è l’omicidio consumato in mezzo alla strada, ma per colpa inerente le modalità della circolazione stradale. Stradale, comprensiva di “autostradale”, per fortuna senza specificazione di strade vicinali, asfaltate o no. Ma con esclusione delle “vie ferrate”.
L’omicidio ferroviario come categoria giuridica non esiste. Anche se ci sono processi per omicidio colposo inerente alla circolazione ferroviaria. Ma, una volta, rotto il sistema penale che non fa distinzione tra gli esseri umani vittime di uccisioni, è venuto in uso, quasi di soppiatto, nel linguaggio giornalistico (non ancora, per fortuna, in quello propriamente giudiziario) nientemeno la differenziazione dei delitti colposi o dolosi contro la vita e l’integrità delle persone a seconda dell’età. Una pioggia di “diversificazioni” a seconda dell’età dell’ucciso o ferito “Ucciso un trentaquattrenne”, “Ucciso un ventiduenne”. E così via, fino alle alte “quote” dei vecchi mandati all’altro mondo con un anticipo magari, necessariamente modesto. “Auto fuori strada… muore ottantasettenne”. Oppure, invece, “…muore tredicenne, diciassettenne”.
Si può dire che in breve tempo (o forse in passato io ero distratto da altro) il linguaggio della cronaca nera giornalistica dei delitti dolosi, e degli incidenti della circolazione stradale, sia cambiato. Non si parla più di persone in genere. Né solo di vecchi e di giovani, ma di età, di anni. Ci si fa grazia solo dei mesi. Non siamo ancora al “muore nello scontro un ventitreenne e mezzo” (o qualcosa del genere). Credo che, invece, si tenga conto solo degli anni compiuti.
Dunque i cronisti, quando c’è qualcuno di questi luttuosi avvenimenti, per prima cosa è da ritenere che domandino a poliziotti ed impresari di pompe funebri: “quanti anni aveva la buonanima?”. E i feriti? Che età quei ragazzi? E la ragazza? Non credo, infatti, che l’età di morti e feriti in incidenti e in “schianti” (parola che sta venendo in uso frequente) se li inventino. Non lo si può pensare. Bisogna aver fiducia sulla puntualità ed onestà dell’informazione.
Aggiornato il 08 gennaio 2020 alle ore 13:04