
L’azione penale è obbligatoria, ma le indagini sono discrezionali; il potere di interdire sovrasta il potere di fare; quanto più grande è il ruolo del soggetto interdetto, tanto maggiore è il ruolo del soggetto interdittore. In queste tre formule si possono riassumere alcuni dei malanni italiani, che avviluppano il Paese nel labirinto dell’immobilismo.
È chiaro a tutti che sotto il comune cappello della “magistratura” si esercitano due funzioni molto diverse: l’una riguardante le indagini, l’altra il giudizio. In tutto il mondo occidentale, le due funzioni afferiscono a soggetti diversi, giacché solo nel processo inquisitorio chi indaga è anche giudice, mentre il processo accusatorio, teoricamente vigente anche in Italia, suppone necessariamente una netta separazione tra il soggetto che prima indaga e poi accusa e il soggetto che giudica, sulla base delle prove prodotte dall’accusa e dalla difesa. I sue soggetti non possono appartenere alla stessa branca dell’amministrazione dello Stato, perché non deve sussistere tra di loro nessuna colleganza e nessun legame di solidarietà “di corpo”.
Questa piccola premessa è necessaria per intendere quanto in Italia sia falsata la corretta divisione dei poteri, con esiti nefasti sul dinamismo politico-sociale. La figura del pubblico ministero mette in crisi l’architettura costituzionale della divisione dei poteri, poiché esercita il potere amministrativo di coercizione, mentre è compartecipe, in via di fatto, del potere legislativo e del potere (che sarebbe più corretto chiamare ordine) giudiziario e influenza pesantemente il “quarto potere” (di stampa).
Il pubblico ministero è il capo di tutte le polizie italiane – e sono molte (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia municipale, Polizia penitenziaria, Guardia costiera, forestale, venatoria, etc.) in funzione giudiziaria. Essendo a capo della polizia giudiziaria, esercita una funzione dai connotati chiaramente amministrativi, corredata necessariamente dal potere di coercizione, per la ragione evidentissima che le indagini non possono esercitarsi previo il consenso dell’indagato. Ebbene, questo soggetto è compartecipe delle prerogative del giudice e ne influenza le decisioni, essendo un suo collega. Non a caso il giudice per le indagini preliminari (Gip) accoglie quasi il 100 per cento delle richieste di rinvio a giudizio del pubblico ministero, riducendosi sua sponte al ruolo di “passacarte” secondo l’accezione comune.
Il pubblico ministero è poi, per inclinazione naturale, particolarmente versatile e vocato alla visibilità e alla loquacità. Il giudice deve giudicare in silenzio, ma il pm deve pur informare l’opinione pubblica delle indagini particolarmente rilevanti. Ovviamente, nei consessi rappresentativi, i loquaci hanno il sopravvento sui silenziosi, pertanto non stupisce che la categoria dei pubblici ministeri è sovradimensionata nei posti chiave del Consiglio superiore della magistratura e dell’Associazione nazionale dei magistrati, mentre una discreta pattuglia di ex siede nel Parlamento. Non è un mistero poi che il “veto” del Csm, dell’Anm e dei parlamentari sensibilizzati (non di rado ex colleghi) abbia impedito qualsivoglia intervento legislativo sull’ordine giudiziario. Inoltre, tutto lo staff tecnico del Guardasigilli è costituito da magistrati, molti dei quali ex pubblici ministeri. Per questa via, di fatto, l’organo amministrativo, assimilato all’organo giurisdizionale, chiamato pubblico ministero, è compartecipe obliquamente del potere legislativo e di governo.
Che dire poi della stampa? Sfugge a nessuno che i giornali sono sempre ben informati delle indagini, sulle quali vige teoricamente il vincolo di segretezza? Chiunque sia il misterioso informatore della stampa, che viola l’obbligo di segretezza, è certo che il risalto mediatico delle indagini conferisce visibilità e prestigio all’organo che dirige le indagini. Ovviamente, di tanto si incrementano visibilità e prestigio dell’inquisitore, alimentandone il potere relazionale nella società, di quanto è rilevante il ruolo sociale dell’inquisito. Sicché l’interesse all’ascesa sociale, comune a tutti gli uomini del mondo e si può supporre non estraneo alla persona fisica del pubblico ministero, può trovare terreno fertile nelle indagini riguardanti figure e personaggi apicali e famosi, piuttosto che “ladri di polli”. Per nostra sfortuna, tuttavia, la società deve essere tutelata anche nei confronti dei “ladri di polli”.
In conclusione, il pubblico ministero in Italia è il punto d’incontro e di commistione dei tre poteri canonici e del quarto “aggiuntivo”. Ma, ovviamente, tale organo esercita il suo ministero con le indagini; il che significa che può bloccare un’attività, ma non promuoverla o realizzarla. A misura che il suo potere sovrasta gli altri, l’interdizione sovrasta l’azione. L’immobilismo italiano si deve a molti fattori, ma uno dei più rilevanti risiede appunto nell’anomalia del pubblico ministero, chiamato “giudice” per interposto “magistrato”.
I suoi atti, pur avendo carattere intrinsecamente amministrativo e “di parte” (giacché, nello Stato di diritto, l’amministrazione è una “parte” in posizione paritaria rispetto alla “parte” privata) sono coperti da un’aura di “imparzialità” e quasi “sacralità”, perché sempre e comunque sono “dovuti”. A questo equivoco presta il suo contributo il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Si invoca infatti tale principio molto spesso a sproposito, per giustificare atti eminentemente discrezionali ed elettivi. L’obbligo di esercitare l’azione penale riguarda la fase finale delle indagini, non già la scelta iniziale di indirizzarla a est piuttosto che ovest. Per esempio, le indagini per abuso d’ufficio, derivante dall’utilizzo dei voli di Stato aperte nei confronti di Matteo Salvini, potevano essere aperte nei confronti di tanti altri fruitori dei voli di Stato (sulla base di ciò che si legge nei giornali). Non sussistendo uno specifico danno erariale, non si vede in che cosa differissero i voli dell’uno rispetto ai voli degli altri. È possibile pure che ex post sia rinvenuta una differenza, ma nella prospettiva ex ante, la quale indirizza la scelta direzionale delle indagini, non può sussistere alcuna differenza.
Se dunque si vuole uscire dalle secche dell’immobilismo, è necessario che il potere di interdire non sovrasti il potere di fare. Deve essere garantito ai politici lo spazio per esercitare serenamente il loro ministero, non meno importante di quello delle indagini. Al contempo, deve essere nettamente separata la carriera e la funzione del pm da quella del giudice. Inoltre l’obbligatorietà dell’azione penale non può e non deve riguardare la scelta iniziale della direzione da imprimere alle indagini. Per queste ragioni, sono urgenti in Italia: il ripristino dell’immunità parlamentare; la separazione della carriere del pubblico ministero e del giudice; nonché l’attribuzione della direzione delle indagini agli organi di polizia nella fase iniziale.
Aggiornato il 16 dicembre 2019 alle ore 09:48