I liberali devono reagire al politicamente corretto

Era ora. Era l’ora del convegno della Destra Liberale, tenutosi al Parco dei Principi il 18 ottobre scorso. È ora che i liberali escano dal generico moderatismo e dall’ambiguo terzismo dell’“altrove”. È in corso infatti da tempo nel mondo, in Europa ed in Italia, una vera guerra culturale (oltre che politica ed economica) portata dalla sinistra mondiale al cuore culturale stesso della civiltà occidentale liberale e cristiana. Si tratta di un nuovo attacco, portato con una nuova ideologia, il politicamente corretto, e con i moderni metodi mediatici, sia alla Tradizione, sia alla Libertà, a cui i liberali non possono che opporre una decisa resistenza.

Con la fine del comunismo sono fallite tute le ideologie di sinistra, sia quelle totalitarie (comunismo, fascismo e nazismo), sia quelle socialdemocratiche – queste ultime cadute per la crisi fiscale degli Stati occidentali, tutti oberati da un esorbitante e paralizzante debito pubblico. Va precisato comunque che della retorica della giustizia sociale e della filosofia dello statalismo e dell’intervento pubblico in economia è però e comunque rimasta in tutti i partiti di destra e di sinistra la pratica spendacciona di acquistare i voti dei maggiorenni con le risorse delle future generazioni. L’ideologia socialdemocratica è caduta, ma ne è rimasta e se ne è anzi generalizzata l’infezione.

Con il fallimento del comunismo e della socialdemocrazia è caduta anche la scorza ideologica che avvolgeva la coscienza della sinistra novecentesca ed è rimasto il suo nocciolo duro: l’avversione, anzi un vero odio, verso la propria civiltà ed il desiderio di ribaltarla dalle fondamenta per sostituirla con una “nuova civiltà”, che una volta era il comunismo, ma ora è un imprevedibile ed ineffabile “totalmente altro”, la proverbiale “isola che non c’è”.

L’attacco alla civiltà occidentale, liberal-democratica e cristiana, alla sua cultura ed alle sue maggiori istituzioni non è nuovo ed è sotto gli occhi di tutti. Lo stato nazionale, la democrazia liberale rappresentativa, il garantismo giuridico, la scienza stessa, la ragione critica, il concetto stesso di natura, la famiglia e la religione (cristiana) occidentale stanno subendo da tempo un’opera di continua decostruzione e demolizione quotidiana ad opera dei “chierici” di sinistra occidentali.
Si tratta di intellettuali, uomini politici e persino, oggi più che mai, prelati cattolici e protestanti che, in qualche modo, sono definibili (e tali si definiscono) “di sinistra”, e molto meno legittimamente “progressisti”. Ad essi ben si attaglia la denominazione di “chierici”, dato che da tempo mostrano di voler sostituire il clero tradizionale (in disarmo anche autoinflitto). Predicano e propagano, con accenti pedagogici e sermoneggianti, infatti, una nuova religione civile e secolare, sostitutiva della tradizione cristiana. Svolgono poi una pretesca funzione di occhiuti guardiani neo-puritani della moralità pubblica e privata. E la chiamano “correttezza politica”.

Li definiamo legittimamente “di sinistra” perché tali si definiscono e perché una parte della sinistra europea ha sempre celato dietro le sue varie maschere ideologiche (dal giacobinismo russoviano ai giacobini rossi e neri dei due totalitarismi del Novecento alle sue più recenti incarnazioni ideologiche) la sua vera passione dominante che era ed è l’odio per la civiltà occidentale liberale e cristiana. Un odio che, come notava Papa Ratzinger, è anche un “patologico odio di sé”.

Che sia in effetti patologico lo dimostra non solo il fatto che avversano e anzi odiano radicalmente la propria civiltà – il che è già di per sé sintomatico – ma soprattutto il fatto che la civiltà occidentale ha non solo creato le più rilevanti acquisizioni e creazioni scientifiche, tecniche e artistiche dell’umanità, ma è anche riuscita a coniugare insieme, diritti, libertà, democrazia e benessere. Ha realizzato un dominio sulla natura senza precedenti, riuscendo ad eliminare antichi flagelli come le epidemie e le carestie. Essa è perciò definibile come la “ricetta di maggior successo” della storia umana. Questa suo successo è emblematicamente mostrato dalla sua unica attrattività: dal fatto cioè che praticamente tutti gli appartenenti ad altre civiltà aspirerebbero a viverci trasferirendovisi (la votano con i piedi, si può dire) o ad imitarla, assorbendone selettivamente alcuni elementi culturali e modi di vivere. Pochi fanno o pensano il contrario. Una ragione ci sarà.

Nonostante ciò la civiltà occidentale ha molti nemici anche culturali. È il prezzo dei suoi successi. Ha potenti nemici esterni (come la Cina confuciana e il mondo islamico) che stanno cercando di riempire il vuoto creatosi dopo la fine della Guerra fredda, soprattutto in Europa, anello debole dell’Occidente. Ma i suoi nemici più insidiosi sono quelli interni: sono i chierici di sinistra, i ‘barbari interni’, che demoliscono quotidianamente la casa natale comune anche alleandosi con i nemici esterni, a favore dei quali giocano il ruolo dei “cavalli di Troia”. Siamo di fronte ad un nuova ondata, in forme rinnovate, del “tradimento dei chierici”, già denunciato da J. Benda nel 1927.

Questo odio primigenio per la propria casa natale (oicofobia) è da tempo la vera passione sottostante alle cosiddette ideologie rivoluzionarie dell’800 e del Novecento che stanno all’origine stessa di una parte preponderante della sinistra, quella rivoluzionaria. Ma anche l’altra sinistra, quella riformista, cristianeggiante e democratica, se non anche liberale, fu non sempre immune dalle influenze della prima, verso la quale ebbe sempre una sorta di complesso di inferiorità. Le ideologie rivoluzionarie consistevano in sostanza nella volontà di ribaltare la civiltà occidentale dalle fondamenta con una palingenesi radicale che facesse tabula rasa dell’intero esistente anche attraverso il terrore di massa: una “purificazione” della società dagli elementi contaminati dal male radicale (la proprietà privata e lo spirito acquisitivo “egoistico” del borghese, specie se ebreo). E infatti venivano definiti “filistei” (dall’ebreo antisemita Marx), “insetti nocivi” (da Lenin), “locuste e cavallette” (da Gramsci), “nemici del popolo” (da Stalin) e “parassiti nemici della Nazione” (da Hitler). Trovate voi le differenze.

Qualcuno dirà a questo punto: la sinistra ha abbandonato questo vecchio filone rivoluzionario e totalitario ed oggi è divenuta riformista, democratica, e anzi “liberale” e in alcune sue componenti addirittura “liberista”. In realtà gran parte dei chierici di sinistra – specie in Italia dove per decenni ha imperversato il più grande e culturalmente influente partito comunista dell’Occidente – ha abbandonato l’idea della rivoluzione violenta e quella della società comunista, ma non ha perso la sua “passion predominante”. L’odio per la civiltà occidentale è il suo vero “cuore eterno” e perciò essa non ha rinunciato alla volontà di ribaltare – con una rivoluzione, non direttamente politica, ma culturale e con mezzi mediatici – la tradizione e le basi culturali e istituzionali della società liberale.

Non a caso l’idea di “rivoluzione culturale” risale ad Antonio Gramsci che, davanti alle sconfitte del movimento operaio (in Ungheria, Germania e Italia) raccomandava ai comunisti di non aspettare più l’ora X della conquista violenta del potere statale ed economico, ma di demolire e occupare gradualmente con le armi della critica ed una lotta ideologica attiva “le fortezze e le casematte” della società civile, le istituzioni culturali ed educative, la famiglia, sostituendo l’internazionalismo al patriottismo, e una religione civile alla religione cristiana. È questa in sostanza “l’egemonia gramsciana”: un leninismo, tatticamente aggiornato ed adattato alla situazione italiana ed europea. “Il socialismo – disse anzi da vero giacobino rosso – è la religione che ammazzerà il cristianesimo”.

È significativo che Gramsci chiamò questo suo appello alla rivoluzione culturale un passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”. Guerra a cosa? La risposta è ovvia e la si trova persino in Marx, che nel suo Manifesto del 1848, definì il comunismo come “l’abolizione dello stato delle cose presenti”. E lo stesso Engels aveva scritto: “Tutto quel che esiste merita di perire”. Il riferimento di Marx, Engels e Gramsci è ad una vera guerra culturale alla società europea, in tutti i suoi aspetti. Predicavano una rivoluzione culturale.

Se ne fece interprete il Pci togliattiano, poi berlingueriano, stabilendo un’alleanza con il mondo della cultura, gli intellettuali vecchi e nuovi, grandi e piccoli, definiti “compagni di strada” e “sinceri democratici”; e penetrando nelle scuole di ogni grado nelle case editrici, nei giornali, nella magistratura e nelle chiese. È significativo ricordare che quella strategia ebbe un sensibile aggiornamento negli anni Sessanta per impulso di Umberto Eco che, in un lungo saggio su “Rinascita”, invitò la sinistra a puntare non solo e non tanto sulla grande cultura e sui grandi intellettuali, ma anche e soprattutto sugli intellettuali di medio e basso rango e sulla cultura di massa.

La tesi della rivoluzione culturale ebbe una conferma clamorosa nella rivolta non solo studentesca del 1968 che, sull’onda dello svecchiamento di aspetti bigotti ed autoritari della società, giunse, per è estremismo (davvero “infantile”) a praticare una vera guerra culturale e ideologica alla civiltà occidentale. Esso colpiva le basi stesse, i parametri, di ogni società civile, di ogni civiltà, ma fu un fenomeno che investì solo l’Occidente. Furono così demoliti il principio di autorità in tutte le sue specificazioni, ma in particolare nelle istituzioni educative e scolastiche e nelle famiglie; entrambe ne sono uscite malconce se non distrutte. Il ’68 decostruì il rigore della scienza, affermò il primato del soggettivismo sulloggettività e del principio del piacere sul principio di realtà. Denigrò la meritocrazia, il senso di appartenenza ad una comunità nazionale, lo spirito religioso. “Vietato vietare” e “l’immaginazione al potere” furono gli slogan di una rivoluzione culturale, dei costumi, in particolare quelli sessuali (il che fu fino a un certo punto salutare). Ma fu anche anarcoide e programmaticamente trasgressivo: denigrava ogni tradizione ed ogni istituzione occidentale. Non a caso i suoi miti furono terzomondisti: Mao, la sua rivoluzione culturale cinese e Che Guevara. Con quella rivolta culturale decadde ogni senso del limite, delle buone maniere e della decenza anche verbale.

Da questo anarchismo estremista infantile presero le distanze persino alcuni (non Marcuse) dei cattivi maestri che erano stati i precursori ideologici della rivoluzione culturale sessantottesca: i filosofi neomarxisti della scuola di Francoforte, che, in sostanza avevano indicato nelle basi stesse della civiltà occidentale e, in particolare nel liberalismo e nella tolleranza (da Marcuse definita “repressiva”), la fonte dell’autoritarismo e persino del totalitarismo. E per questo avevano predicato il “Gran Rifiuto” della civiltà occidentale, che i giovani del ’68 incarnarono soprattutto perché prometteva un illusorio “paradiso terrestre” di godimenti continui.

Dal 1968 scaturì certo una salutare liberalizzazione dei costumi, soprattutto sessuali e un altrettanto salutare femminismo liberale e paritario, che, però degenerò presto in una seconda fase sessuofobica, identitaria e suprematista e finì col predicare la guerra dei sessi, il lesbismo e poi la paradossale “no difference” tra i sessi.

Tuttavia, l’eredità complessiva del 1968 fu di segno profondamente illiberale e antiliberale, perché rinverdiva il mito rivoluzionario anti-capitalista ed anti-borghese, che era già obsoleto e smentito dai fatti e dalla storia, preconizzava una distruzione della tradizione occidentale liberaldemocratica e cristiana, denigrava i diritti formali di libertà, compresi quelli di opinione e di pensiero, in quanto “borghesi”, demoliva il concetto di tolleranza, propagava un idea di democrazia diretta ed assembleare. Denigrava persino l’oggettività (sia pure fallibile) della scienza (come poi dimostrò lo sciagurato libretto “L’ape e l’architetto”, in cui fior di scienziati italiani contrapponevano alla “scienza borghese” una “scienza proletaria”). Il 1968 propagò anche un ambiguo anti-imperialismo terzomondista unilateralmente e pregiudizialmente anti-occidentale (sia pure allora giustificato dalla guerra del Vietnam), chiudendo gli occhi su quello societico. Esso rafforzò un antifascismo estremista e persino sanguinario. “Uccidere un fascista non è reato” – scrisse sui muri.

Il dopo-1968 segnò anche la trasformazione della sinistra in un diffuso “Partito radicale di massa” (copyright di Augusto Del Noce): un aggregato informale, costituito non solo da esponenti del maggiore partito della sinistra, ma soprattutto da “chierici” che si autodefinivano “progressisti”: intellettuali di vario livello, giornalisti, operatori radio-televisivi, professori accademici e insegnanti (e anche preti e prelati).

Il loro maggiore intento fu quello di continuare la rivoluzione culturale del 1968 facendo delle sue istanze un pensiero unico praticamente obbligatorio per tutti, ma tassativo per chi volesse entrare a far parte dell’élite dell’industria culturale. Si stabilì negli anni ’70 e ’80, con la volenterosa complicità di eminenti intellettuali un’egemonia della sinistra sui canali di comunicazione pubblica. Nacquero allora anche le basi di quel pensiero unico che sarà poi chiamato il “politicamente corretto”.

L’elaborazione di questa nuova ideologia ebbe un momento culminante a ridosso del crollo dell’Urss e del comunismo internazionale (1989-1991) quando i “chierici” ex- e post-comunisti, rimasero “orfani” della rivoluzione e del Partito (comunista) che erano stati la loro stella polare e i loro genitori scomparsi. Per molti chierici di sinistra fu un vero shock. Molti di loro (come Walter Veltroni) negarono di essere stati mai comunisti, altri (come Massimo D’Alema) dichiararono di esserlo stati fino all’invasione sovietica della Cecoslovacchia del 1968. Moltissimi – e la cosa è significativa – si dichiararono improvvisamente addirittura “liberali”.

Tuttavia, dietro la facciata della scoperta di un liberalismo, dichiarato con malcelata riluttanza e obtorto collo (la vittoria della liberal-democrazia sul comunismo era troppo lampante!), quegli intellettuali orfani del comunismo continuavano a nutrire, in continuità con il passato, una irrefrenabile avversione per la società ed i valori occidentali ed un rifiuto viscerale di riconoscere la superiorità, politica e morale, delle idee liberali e della società occidentale; la quale invece per essi restava la fonte del Male globale. Essi hanno conservato così nel loro intimo un “continuismo”, che è una volontà di salvaguardare - quasi fosse una ricchezza collettiva e non invece un cumulo di deliri ed errori - la storia e la tradizione teorica e politica della sinistra ed in particolare di quella comunista.

Per questa loro reticenza resta ancor oggi molta ambiguità nelle loro conversioni sulla via di Damasco, che non furono mai vere abiure autocritiche. Loro hanno sempre ragione perché, come gli gnostici antichi, sono parte di una élite di illuminati, una vera casta di “figli della luce”, in possesso della vera dottrina. Ma nelle loro conversioni anche qualcosa di vero: per molti di loro il comunismo era stato un mascheramento ideologico “colto” del loro basilare rifiuto del mondo reale, del loro odio per la civiltà occidentale, per il proprio mondo, la propria tradizione e, quindi, del loro anelito (che era anche una “nostalgia” – disse Horkheimer) per un “totalmente altro”. Quale? ormai non più il comunismo, ma una nuova civiltà “quale che fosse”, purché si superasse il malefico e colpevole Occidente.

Con riferimento a quei chierici orfani del comunismo il sociologo Kenneth Minogue ha scritto: “Ci sono persone il cui odio per il moderno Occidente e la cui delusione per il fallimento delle aspettative rivoluzionarie sono tanto intensi da indurli ad appoggiare tutto ciò che è violentemente ostile al nostro modo di vivere, nella speranza che un giorno o l'altro la nostra civiltà venga annientata”.

Alberto Asor Rosa, nel suo libro “La Guerra” ha confessato l’eterna “passion predominante” dei chierici di sinistra: “La missione dell'uomo della sconfitta (il post-comunista, ndr) è oggi quella di obbligare l'Occidente a vedersi e dunque aiutarlo a dissolversi”. Un’ammissione che più chiara non si poteva sperare. Il chierico di sinistra é uscito “al naturale”.

Da quei travagli post-sessantotteschi e post-comunisti è nata quasi spontaneamente - senza una teorizzazione unitaria, ma per aggregazione di vari elementi sparsi - una nuova super-ideologia: il politicamente corretto. Esso non è solo un’etichetta linguistica iper-rispettosa per le minoranze svantaggiate o presunte tali. Non è solo una Lourdes linguistica o una semantica dell’eufemismo. È anche un coacervo di varie istanze ideologiche tutte anti-occidentali: vi troviamo il relativismo assoluto post-modernista, il multiculturalismo, il perfettismo iper-democratico, il pacifismo assoluto, il terzomondismo, il giustizialismo giacobino, l’ecologismo catastrofista e apocalittico: il tutto è avvolto in un buonismo cristianeggiante da paleocristiani misericordiosi e pauperisti che non rinuncia alla distruzione del cristianesimo tradizionale.

A ben vedere, questo coacervo di ideologie ha un solo denominatore comune ed una sola stella polare: la volontà di decostruire e demolire l’Occidente e la sua civiltà, sulla base di un moralistica ed anacronistica colpevolizzazione e denigrazione dell’Occidente. È l’Occidente in sé, non più solo il capitalismo - la fonte del Male radicale globale di ogni tempo. Che le altre civiltà siano ugualmente colpevoli nei tempi storici di misfatti analoghi, non importa. Le altre civiltà meritano rispetto considerazione e giustificazioni. L’Occidente no. Bisogna perciò dissolverlo con un processo continuo ad ogni suo aspetto e manifestazione. Ogni suo aspetto e manifestazione, tradizione e istituzione è perciò oggetto di una demolizione e decostruzione continua e quotidiana. Questo obiettivo si nasconde anche dietro un antifascismo e un antirazzismo assoluti e quasi metafisici, formulati e praticati in maniera così estensiva e “doppiopesista” che ogni posizione favorevole all’Occidente ed alla sua cultura, ogni opinione liberal-conservatrice sia suscettibile di essere definita “fascista” e “razzista”.

La stessa cosa può dirsi per l’ossessivo anti-sessismo omofilo rappresentato emblematicamente dalla antiscientifica teoria del gender mirante a decostruire la famiglia e l’identità sessuale dei giovani occidentali. Il sostanziale antioccidentalismo del politicamente corretto è dimostrato dal suo peculiare e sistematico doppiopesismo: si criminalizza solo la tradizione e l’identità occidentale e quella italiana in particolare. I suoi difensori vengono accusati di un perverso tradizionalismo e identitarismo occidentalista o nazionale e spesso equiparati al razzismo ed al fascismo (come insegnò a fare Umberto Eco nel suo libretto “Il fascismo eterno” dove ogni conservatorismo e tradizionalismo liberale viene equiparato al fascismo ). Gli stessi chierici del politicamente corretto esaltano però contemporaneamente ogni differenza culturale e affermano di voler rispettare le identità e tradizioni altrui. Bizzarro doppio standartd.

Altro esempio è la patente contraddizione di quei sedicenti “liberali” e “laici” (o “veri cristiani”) che rivendicano “più Europa” e, nello stesso tempo, favoriscono l’adozione di dissennate politiche di accoglienza illimitata di immigrati irregolari (spesso legati a una religione intrinsecamente teocratica, integralista e illiberale, come l’Islam). Quegli immigrati vanno a ingrossare le file di una criminalità diffusa o organizzata, o vanno a costituire o ingrossare le cosiddette “no-go zone”, dove vige la sharia islamica, costumi e tradizioni incostituzionali e illegali. Non si accorgono i chierici del “più Europa” che quelle “no-go zone” che essi stessi stanno promuovendo vere cessioni di territorio europeo ad una cultura incompatibile con le costituzioni liberal-democratiche europee?

Quale è poi l’obbiettivo dei principali presunti nuovi diritti promossi dai chierici del politicamente corretto? Si teorizza per esempio, con l’appoggio dell’Onu a maggioranza anti-occidentale, un presunto “diritto” di ogni essere umano a emigrare e risiedere dovunque desideri. Ciò sancirebbe un obbligo di ogni Stato ad accogliere degnamente decine e anche centinaia di milioni di africani, mediorientali ed asiatici. Per gli stati nazionali occidentali significherebbe la fine definitiva. Parallelamente si teorizza l’abolizione della differenza giuridica tra cittadino e no e un accesso sempre più facile alla cittadinanza, il che avrebbe un analogo effetto letale.

Così pure si teorizza un presunto “diritto” delle coppie gay (a cui non basterebbero quelli stabiliti dalla liberale legge sulle unioni civili) al matrimonio con il corollario di un “diritto” all’adozione dei bambini, trascurando del tutto i diritti – che più naturali non si possono immaginare- di questi ultimi ad avere un padre ed una madre. I presunti diritti delle (spesso effimere) coppie gay sarebbero tutto, quelli dei bambini nulla. Perché sono indifesi? Perché non hanno voce nei parlamenti? I bambini sono la minoranza più indifesa e più debole del mondo. I liberali veri non possono non opporsi. Gli esempi di contraddizioni e doppiopesismi dei chierici del politicamente corretto potrebbero continuare. Nel complesso si può dire che quei chierici manifestano una peculiare “allofilia” ed una bizzarra “autofobia” culturale, “un patologico odio di sé”.

I chierici del politicamente corretto si fingono poi iper-liberali e iper-democratici, ben sapendo che l’assolutizzazione e la radicalizzazione dei principi liberali e democratici sono – come ha insegnato Norberto Bobbio – una maniera sottile per decostruire la società liberale e democratica dall’interno. I diritti liberali e democratici non sono assoluti ed hanno dei limiti nei diritti e nelle libertà altrui. Questo deve essere chiaro. Come chiaro devono essere le dinamiche illiberali del perfettismo democratico, un altro pilastro del politicamente corretto illustrate da Giovanni Sartori, nel suo ultimo libretto “La corsa verso il nulla”.

Quei chierici, a dispetto del loro relativismo, si mostrano poi iper-cristiani (e iper-moralisti a corrente alternata e con abbondanti doppi pesi) per potere completare dall’interno la demolizione del cristianesimo e la sua sostituzione con la loro religione civile e la loro introvabile e sempre ricercata “etica laica e razionale”.

Su questo punto è bene che i liberali abbiano presente che il cristianesimo – che è una cultura ed una civiltà oltre che una religione – non può essere ridotto alla sua mitologia ed ai suoi dogmi né tanto meno all’Inquisizione e ad altre discutibili azioni pratiche della Chiesa cattolica, come fanno molti suoi detrattori, anche liberali. Esso è stato all’origine dell’Illuminismo e del liberalismo, e quindi dell’Europa e dell’Occidente, ma è stato (soprattutto a causa delle sue regressioni a canoni medievali teocratici e anti-liberali nell’800) percepito nel suo complesso dai liberali come il principale ostacolo non solo all’unificazione e all’indipendenza nazionale, ma anche allo sviluppo delle libertà, nonché - da una grande moltitudine- il principale impedimento alla stessa felicità umana.

Per queste ragioni molti liberali europei ed italiani hanno spesso fatto proprio l’appello volterriano “écrasez l’infame” ed hanno assunto posizioni “laiciste” che in realtà non sono laiche perché concretizzano una religione civile e una fede atea o irreligiosa unica che preconizza positivisticamente il superamento scientista della religione ad opera della scienza e della ragione strumentale; e non sono nemmeno liberali perché finiscono con il negare ai credenti -considerati “retrogradi e superstiziosi” quando non “cretini” (copyright Odifreddi)- il diritto ad esprimersi nella sfera pubblica.

Il cristianesimo è poi portatore di un deposito etico (sostanzialmente liberale) generalizzato e interiorizzato da vaste fasce della popolazioni occidentali. E costituisce perciò un vero “capitale sociale” di cui lo stato liberale ha ancora un bisogno, che oggi è anche urgente. Ne ha bisogno vieppiù oggi che il pericolo maggiore è quello di una democrazia anomica (priva di valori) a cui conducono varie tendenze nichiliste della modernità, tra cui gli esiti di un certo proceduralismo neo-positivista ed eticamente relativista, presente anche in molti liberali laicisti.

Bisogna tenere conto poi del fatto che la chiesa cattolica ha abbandonato le sue pretese teocratiche ed integraliste e si è ridotta ad una organizzazione caritatevole, e, ultimamente, richiama l’immagine di una “Ong senza navi”. Continuare quindi a voler “schiacciare l’infame”, oltre che anacronistico retaggio ottocentesco, equivale oggi a “sparare sulla Croce rossa” o a voler “gettare via il bambino con l’acqua sporca”. Semmai qualche perplessità nei liberali dovrebbe suscitare la deriva pelagiana, politicista in senso pauperista e terzomondista (cioè anti-occidentale) del Papa Bergoglio, a cui spesso i chierici di sinistra, compresi molti liberali laicisti, permettono ingerenze politiche che non hanno permesso e non consentirebbero a papi non orientati “a sinistra”, come appare Bergoglio.

Notevole è poi il fatto che alla distruzione del cristianesimo stiano oggi collaborando alacremente i prelati bergogliani, anch’essi in preda alle contorsioni del politicamente corretto (si veda per esempio quanto scrive Arturo Diaconale nel suo recente pamphlet “Santità”).

Il vero oscurantismo moralista, vero nemico dei liberali, è oggi invece il politicamente corretto. Oscurantismo perché la correttezza politica, viene emotivisticamente, assunta dai chierici come criterio di verità quasi assoluta che vogliono, a dispetto del loro relativismo assoluto, sostituire alla verità fattuale, logica, scientifica e razionale. Lo fanno proprio come lo facevano i chierici dello stalinismo, Lisenko e Zhdanov, per i quali non c’era verità scientifica e dignità letteraria che potesse prevalere sulla opportunità politica “rivoluzionaria”. Il politicamente corretto è dello stesso genere dello stalinianamente corretto. Quello allo stalinismo è un riferimento solo apparentemente inappropriato e anacronistico perché l’obbiettivo pratico del politicamente corretto è quello di mettere alla gogna mediatica – e possibilmente psichiatrica e giudiziaria - tutti difensori della cultura occidentale che osino sostenere posizioni politicamente scorrette. Non a caso queste ultime, sol che si differenzino dalla vulgata unica ed esprimano, sia pur ragionevoli riferimenti alla realtà, ai fatti, alla natura o alla scienza, vengono psichiatrizzate come “fobie” (non si parla forse di “omo-fobia”, “xeno-fobia”, “islamo-fobia”?). E per punire i reprobi i chierici del politicamente corretto cercano di introdurre persino reati di opinione. Altro che “liberali”! 

Il politicamente corretto funziona perciò in pratica come un “totalitarismo soft post-moderno”, che ovviamente non usa gulag o lager, ma mira “solo” all’esclusione dalla sfera pubblica dei conservatori e dei liberali che non si attengano alle prescrizioni ed ai divieti di quel codice etico-politico moralistico e “progressista”. Come tutti i totalitarismi, mira ad una “purificazione” della società: tutti i difensori della cultura e della civiltà occidentale – conservatori e liberali in specie- devono essere esclusi dalla sfera pubblica e in particolare dal sistema dei media e delle comunicazioni, privandoli di ogni microfono e di ogni possibilità di far sentire la propria voce.

Come tutti i totalitarismi il politicamente corretto mira poi anche alla costruzione di un “uomo nuovo”. Quale uomo? Un essere umano privato di ogni tradizione, di ogni identità, di ogni vera cultura, che non sia quella dell’intrattenimento mediatico di massa, “aperto” ad ogni (impossibile) fusione o sincretismo culturale; senza memoria del passato e senza prospettive per il futuro, ma costretto a vivere in un grigio, anonimo, oltre che anomico, eterno presente.

L’emblema sintetico del politicamente corretto è quel cartello ostentato dalla senatrice Monica Cirinnà: “Dio, Patria, Famiglia: che vita de merda”. Altrettanto emblematiche sono le proposte di togliere il crocifisso dalla scuole e di occultarlo nei cimiteri. Ci si deve domandare con semplicità: con cosa lorsignori intendono sostituire lo spirito di religione, il senso della patria, gli affetti familiari e i crocefissi? C’è una sola risposta: con il nulla. Sì, alla loro corsa verso il nulla bisogna opporsi in ogni modo. E i liberali devono opporsi in prima persona. Devono reagire alle assurdità “de-culturanti” del politicamente corretto, come cominciano a fare crescenti strati delle popolazioni occidentali dagli Stati Uniti all’Europa. Ne va delle libertà. Ne va anche delle ragioni spirituali e culturali stesse della convivenza civile in Italia, segnate anche, se non soprattutto, dalla tradizione, la catena di affetti e di ragioni che ci lega alle generazioni passate ed a quelle future. E che ci deve dare il senso e il sale della nostra vita anche nell’epoca del nichilismo diffuso di massa. Diffuso soprattutto dall’intellettuale collettivo di massa, “de sinistra”.

Aggiornato il 21 ottobre 2019 alle ore 18:02