La favola del vincolo di mandato

A volte tornano. I fantasmi del Novecento intendo dire: Hitler, Stalin, Mussolini, Franco. Per cui, sia benedetta la democrazia rappresentativa che li tiene lontano. Ma sarà vero? Se quel fantasma è stato esorcizzato nella Costituzione del ‘48, facendo del Parlamento il dominus del sistema e del presidente del Consiglio un plenipotenziario depotenziato a capo dell’Esecutivo, non sarebbe il caso di emendare un sistema dei poteri così sbilanciato? Pare di no, almeno stando all’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 28 settembre, in cui si difende a spada tratta il vincolo di mandato, per cui l’eletto è il titolare dell’intera sovranità, ovvero rappresenta il corpo elettorale nella sua interezza. E questa, a ben vedere, è una visione quanto mai distopica dell’attuale degrado della democrazia rappresentativa. Infatti, oggi contano molto più di ieri ceto e censo. Per sostenere una campagna elettorale servono risorse finanziarie in funzione dell’estensione del collegio e quindi le alternative sono: sei ricco; ti trovi uno sponsor (e qui si innesta la distonia della lobby che ti sostiene); ti indebiti.

Negli ultimi due casi non sei libero, perché la tua attività di eletto o deve un favore a qualcuno o è condizionata a ripagare un debito. Per rimediare, si potrebbe anche pensare come palliativo di creare un fondo nazionale indipendente per finanziare campagne elettorali di una lista o di un singolo candidato. I prestiti in tal caso sono concessi a tassi particolarmente agevolati, tenendo conto del numero degli elettori e dell’ampiezza del collegio.

Ma, ancora peggio di così, fanno le liste bloccate, per cui l’elettore può solo esprimere un voto collettivo che nega il rapporto diretto. Stessa violazione avviene anche per le liste elettorali con preferenza dato che l’elettore non è in grado di preselezionare le liste con votazioni primarie degli iscritti. Non ci sono, cioè, i prerequisiti di merito, competenza e idoneità per l’elettorato attivo. Come se fosse possibile guidare un bastimento (il nostro addirittura piegato su di un fianco), senza avere una patente nautica di terzo grado e un’esperienza pluridecennale di navigazione in mare aperto.

Un rimedio sarebbe quello di obbligare e condizionare le candidature a un’abilitazione per le cariche elettive cui sovrintende un’Autorità indipendente tipo Ena, che rilascia un brevetto o attestato di idoneità, a conclusione di un ciclo almeno biennale di studi (con materie fondamentali come diritto costituzionale e pubblico; contabilità di stato; drafting law e altro ancora) e di un tirocinio di uguale durata negli enti pubblici locali e centrali in cui l’aspirante svolga effettivamente funzioni attive di amministratore e di controllore. Ma la lacuna più grave è la non corrispondenza (spesso patologica) che esiste tra la classe dei rappresentanti e quelle assai più composite dei rappresentati, tenuto conto esclusivamente dei parametri relative alle classi di età, di sesso e di provenienza geografica, nonché per fasce di reddito.

Comunque sia, un aspirante si presenta (quando va bene, se in collegio uninominale) con una sua proposta che troverà riscontro non nella sovranità popolare (che è “tutta”) ma in un gruppo ristretto di persone che si riconosceranno nei suoi progetti. Contano solo i favorevoli, quindi, e non i contrari che potenzialmente potrebbero essere molti di più, pur senza trovare un candidato che interpreti questa loro volontà! La cosa più imbarazzante delle democrazie rappresentative è che un aspirante parlamentare deve o fare carriera in un partito o presentarsi come indipendente appoggiato da un partito, dato che in Parlamento contano solo i gruppi parlamentari che ti obbligano a un gioco di squadra, per cui l’indipendenza del parlamentare è negata alla radice, essendo sanzionabili con l’espulsione, la non ricandidatura, le sue posizioni attive di dissenso, espresse attraverso un voto difforme. 

La cosa peggiore (l’astensione ne è un termometro molto efficace) della democrazia rappresentativa all’occidentale è costituita dal fatto che tutti coloro (la stragrande maggioranza, è lecito supporre) che vorrebbero candidarsi individualmente non hanno alcuna chance di successo per scarsità di mezzi, impossibilità di accesso ai media radiotelevisivi, assenza o insufficienza di reti relazionali che li colleghino agli interessi dei grandi elettori nazionali (imprenditori, personalità politiche e della cultura; mondo accademico e dello star system dello spettacolo).

Quindi, al netto di tutte le innumerevoli ipocrisie e foglie di fico che si sono strutturate attorno al mito della “democrazia”, la sostanza drammatica ci dice che l’elettorato attivo si fa e discrimina nettamente per ceto e censo. E chi sostiene il contrario mente spudoratamente. Faccio un semplice esempio di come si condiziona l’opinione pubblica: prendete nota delle persone e delle loro professioni (giornalisti, imprenditori, accademici) che vengono regolarmente invitati a dire la loro opinioni in “tutti” i talk della tivù pubblica e privata. Fate un elenco aggiornandolo per settimana e tirate le somme a consuntivo alla fine di ogni anno di trasmissioni. Associate, poi, alle loro opinioni le persone o i soggetti politici presi a bersaglio o, al contrario, privilegiati. Ebbene, troverete “sempre” gli stessi nomi con brevissime, casuali apparizioni di outsider e personalità indipendenti. Ora chiedetevi il perché e rispondetevi da soli “se questa la di può chiamare democrazia!”.

Aggiornato il 01 ottobre 2019 alle ore 11:49