Il fattore Renzi

Matteo Renzi: scorpione o istrione? Forse un ibrido tra i due. Un attore consumato, cioè, che gioca (pericolosamente) con il trasformismo del Potere. Come farebbe una cricca di bari con i dadi truccati, o dietro il tavolino a scomparsa del gioco delle Tre Carte. Il riferimento di baro o prestigiatore, mago del trasformismo, etc., si addice a molte e variegate personalità storiche della politica italiana del secondo dopoguerra a causa dell’esaltazione del modello parlamentarista voluto dalla Costituzione Italiana del 1948. Però, qui siamo oltre.

Per definire politologicamente il fenomeno relativo parlerò di “R-Factor” (“R” come Renzi ma anche nel senso di “Res”, Cosa, in latino), sintetizzandolo con Rf. Parafrasando Nanni Moretti, Renzi assomiglia al protagonista di un suo film che si domanda amleticamente “mi si nota di più se me ne vado o se resto?”. Renzi adotta in questo suo finale una soluzione mediana: “Faccio tutto a metà: me ne vado un pochino ma resto per un altro po’”. Come nel regno animale, una specie si afferma se i suoi geni sono più vantaggiosi di quelli dei suoi competitor. E come l’Rf avvantaggia il suo fenotipo? In vari modi. Ovvero: l’identificazione di Rf come “ago della bilancia” nell’equilibrio del sistema politico attuale; la tenuta contestuale dell’antisalvinismo, del Governo giallo-oro e dell’alleanza sul territorio Pd-M5S; la presenza contestuale dentro-fuori le fila del Partito Democratico, con renziani che si fingono infedeli per restare con Nicola Zingaretti e gestire potere all’interno del partito e del Governo.

Rf è anche, nell’idea del suo proprietario, un fattore aggregante di un’area vasta centrale che per svilupparsi compiutamente ha però bisogno di tempo, mezzi e sodali politici collocati oggi fuori dal Pd. Tutto questo, tuttavia, è solo l’impronta del dito. E dov’è la... Luna? Torniamo ancora una volta al “Deep State”, illuminando per esteso la zona grigia del potere. Il grande gioco sta sempre lì, nella spartizione dei feudi economico-amministrativi degli incarichi pubblici. Chi ha le chiavi pro-tempore (il Governo) del diritto di nomina stratifica classi dirigenti che vanno ben oltre la durata di permanenza di una singola espressione politica al governo del Paese. Questo perché lo “spoils system” negli incarichi pubblici è molto diluito e assai poco concentrato nel tempo, a causa soprattutto dei rinnovi più o meno automatici delle cariche. Soggetti politici transeunti come M5S debbono, pertanto, prendere in prestito figure altamente professionali che non sono state precedentemente individuate, sperimentate e fidelizzate a causa della natura demagogica di “Uno vale Uno”, del populismo anti-establishment, della mancanza totale di conoscenza del funzionamento dell’apparato pubblico.

All’opposto, centrodestra e centrosinistra hanno consolidato nel tempo (decenni) la salda presa di potere sul Deep State, ovvero di tutti i livelli di dirigenza nel complesso Stato-Amministrazione, enti economici e ministeri compresi.

Questa fidelizzazione partitica, come si vede, nuoce gravemente agli interessi dei cittadini italiani. Per rimediare, dagli anni Ottanta propongo un modello post-Ena, costituito da un’Authority nazionale indipendente (designata con maggioranza qualificata dal Parlamento in seduta comune), che gestisca esclusivamente in base al merito una Lista unica nazionale (o “Lista”) aperta e trasparente, suddivisa in sottoliste in funzione delle professionalità richieste, che provveda a filtrare con selezione rigorosa e abilitante gli aventi diritto ad accedere alla Lista, assegnando nel tempo punteggi di merito con graduatorie scorrevoli in base ai curricula originari e alla loro evoluzione temporale (esperienze e titoli acquisiti successivamente).

Dopodiché, “tutte” le posizioni dirigenziali vacanti nello Stato-Amministrazione vengono messe a disposizione dell’Authority che fa automaticamente il “macthing” (ottiene il singolo incarico chi ne fa domanda “e” occupa la posizione più elevata in graduatoria) tra incarichi disponibili e aventi diritto. Il Governo assegna poi a ciascun manager-dirigente gli obiettivi da conseguire, i cui risultati valutati dall’Authority formeranno punteggio di merito per il rinnovo degli incarichi che, comunque, non possono superare la durata decennale. Avremmo così un sistema meritocratico perfetto, con una classe dirigente degna di questo nome e votata all’esclusivo perseguimento dell’interesse nazionale. La politica, invece dei pettegolezzi, perché non si occupa di questo?

Aggiornato il 18 settembre 2019 alle ore 11:24