
Salvini ha fatto strike e si trova al bivio: staccherà la spina (come nega) o continuerà al governo (come afferma)? Di Maio, indebolito com’è, farà la voce grossa o quantomeno ci proverà. E lo farà su autonomia regionale, Flat tax, decreto Sicurezza bis, Tav ossia i temi su cui Salvini sarà costretto ad imporsi se non vuole perdere credibilità. E voti. Il vicepremier leghista farà ovviamente fuoco e fiamme contro il traccheggiamento pentastellato. Ma la domanda è: fino a dove si spingerà? I dati del centrodestra confortano fino ad un certo punto. L’alternativa non offre sicurezze.
Forza Italia è in via di estinzione e rischia abbandoni e scissione, ma Berlusconi rimane ingombrante. Alla Meloni non è riuscito il regicidio elettorale. Così, in caso di alleanze immediate, Salvini potrebbe ritrovarsi ad amministrare un condominio agitato. Inoltre, al Quirinale c’è un inquilino forastico verso la Lega, il quale si metterà di traverso di fronte a qualsiasi iniziativa giudicata anti-europeista, anti-buonista, anti-egualitarista. Offrendo la sponda ai cinque stelle per un’apertura al Pd a salvezza della legislatura.
D’altra parte la sintonia degli elettori sarà pure cresciuta con la Lega e scemata con i pentastellati ma i numeri in Parlamento rimangono quelli che erano. I nuovi parlano a Bruxelles e lì, dichiara Salvini, saranno fatti valere. Nessuno però dubita che la Lega farà in modo che contino altrettanto in Italia.
Tutto porta al Contratto di governo, dove si parla di autonomia regionale, Flat tax, sicurezza e il ministero delle Infrastrutture sarà centrale.
Giorgetti lo aveva intuito, mettendo da un po’ Toninelli sulla graticola. Ha giocato sul velluto, visto come l’uomo fa politica e il politico l’uomo (chiedo scusa al ministro non desidero essere offensivo esprimo solo una valutazione del suo agire politico). Ma rimuovere Toninelli sarà duro perché è figlio della Rete. Viene dal profondo dell’Italia silenziosa, un paesino del Cremonese; ha fatto il militare come ufficiale di complemento nei Carabinieri e poi l’assicuratore. Con la politica aveva provato nel 1984, senza successo, poi l’adesione alla Rete che lo elegge nel 2013 e di nuovo nel 2018. Toninelli sa cosa era la politica degli anni Ottanta e Novanta e sarà naif ma sa di cosa parla. Nel suo curriculum spiccano la decadenza del Cda di Ferrovie dello Stato, in particolare del suo amministratore delegato e la sospensione della fusione Fs Anas (sospensione peraltro sospesa all’indomani della nomina del nuovo vertice di Fs da parte sua).
Toninelli è un duro e puro del Movimento, forse più puro che duro, e se Di Maio è il figlio prediletto del Sud al governo, Toninelli lo è del Nord.
La richiesta di defenestrarlo terremoterebbe il governo e squasserebbe la maggioranza. Per evitare accuse di inseguire il potere la Lega dovrà chiedere ed ottenere l’esplicito cambio di linea politica sui temi sensibili di competenza delle Infrastrutture. Il che per i cinque stelle sappiamo essere inaccettabile.
D’altra parte, se Toninelli restasse al suo posto poco o nulla sarà fatto sui temi ricordati e la Lega si dovrebbe accontentare di tante tarantelle sulla Tav, tante richieste di parere a Cantone sullo sblocca cantieri, poco o nulla sull’autonomia regionale se venissero confermati i sussurri sugli investimenti per le reti viaria e ferroviaria nel Sud ed in Sicilia. Una scelta encomiabile ma da bilanciare con maggiore autonomia impositiva per le regioni del nord. Alla Sicilia, tuttora pentastellata, potrebbe andar bene, l’isola ha uno statuto speciale da sempre.
Dico della Sicilia perché è l’Ohio d’Italia. Andreotti rimase l’ago della bilancia degli ultimi quarant’anni della Dc, e di riflesso della Prima Repubblica, finché dominò in Sicilia. Quando Berlusconi fece cappotto in Sicilia, ebbe una maggioranza parlamentare schiacciante, che né lui né il centrodestra seppero usare.
Alle ultime elezioni i cinque stelle, in Sicilia, hanno fatto strike, sono diventati il primo partito in Parlamento e oggi guidano il Paese, con la Lega, in un triunvirato del quale hanno designato il componente presidente e lasciato silurare il candidato leghista all’economia.
La storia della Sicilia è come un iceberg, se ne coglie appena un quinto, quello scintillante fuori dall’acqua, i restanti quattro quinti sono retroscenici. Vi si declina la pragmaticità del fare normanno con le liturgie borboniche e rimane una terra di baroni, i nobili più temuti dai Re, i quali, se non erro, sommavano qualche potere giurisdizionale al fiscale. In quella splendida isola resiste un’ereditarietà politica tanto legittima (perché i voti si contano) quanto efficiente (perché i risultati arrivano puntuali) che talvolta rallenta il ricambio, incluso quello generazionale e nonostante il familismo.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, causa o grazie ad una lunga esperienza manageriale pubblica nel Sud Italia, ho incrociato alcuni protagonisti politici della stagione. Non sono state tutte rose e fiori, ma ammetto che la Sicilia anticipò la stagione di luci e ombre in cui l’Italia entrò e seppe uscire. Mantengo questa convinzione tutt’ora anche se senza possibilità di conferma. Come quella che vuole il vincitore delle primarie in Ohio diventare il successivo presidente degli Stati Uniti. In Sicilia Salvini ha battuto un colpo secco ma niente strike. I cinque stelle hanno tenuto bene. Salvini dovrà riflettere.
Le elezioni politiche sono lontane, la finanziaria invece è vicina. La crisi economica e sociale fa ancora soffrire gli italiani e le promesse della Lega sono molte. E gli italiani sono volubili.
Aggiornato il 08 luglio 2019 alle ore 13:16