
Ho partecipato il 20 maggio ad un interessante convegno, organizzato presso l’Avvocatura generale dello Stato dall’Ordine degli Ingegneri di Milano, relativo al tema “Decidere sulle grandi opere. Il DPCM 76/2018 ed il Dibattito Pubblico”. Un convegno con un parterre davvero di alto livello e, in tale occasione, il professor Celotto ha esordito soffermandosi proprio sulla costituzionalità dello strumento definito “Dibattito Pubblico”.
In particolare, Celotto ha ricordato la differenza sostanziale tra “democrazia diretta” e “democrazia delegata” precisando che la Costituzione del nostro Paese privilegia il ricorso alla “democrazia delegata” e ciò attraverso proprio il Parlamento. Inoltre esistono forme di democrazia diretta come: il referendum abrogativo, la proposta di legge popolare e la petizione popolare. Secondo il professor Celotto nella nostra Costituzione non si riserva molto spazio a forme di democrazia diretta e anche ulteriori strumenti come: il bilancio partecipato, la consultazione dei destinatari delle norme o i referendum consultivi o propositivi, non incidono, in modo sostanziale, sul processo decisionale del Parlamento. Pertanto grande attenzione va posta sulla necessità di un coinvolgimento diretto della popolazione senza però mettere in crisi una precisa volontà costituzionale che non privilegia la democrazia diretta. Celotto si è soffermato a lungo su tale dicotomia e, in modo davvero raffinato, ha denunciato la forte difficoltà che il decisore pubblico incontra confrontandosi con “il dissenso” ed ha ipotizzato, addirittura, il ricorso ad una possibile “contrattazione del dissenso”.
Colgo volentieri, dunque, questo interessante spunto per soffermarmi su una esperienza che ho vissuto direttamente dal luglio 1991 fino alla fine del 1997, cioè l’intera fase in cui ho ricoperto il ruolo di amministratore delegato della S.p.A. Treno Alta Velocità ed in cui sono stati approvati dagli organi locali e dai vari Dicasteri competenti tutti i progetti delle tratte ferroviarie Napoli – Roma, Firenze – Bologna, Bologna – Milano, Milano – Torino. Milano – Verona e Verona – Venezia. Ritengo utile ricordare che le “conferenze dei servizi” si concludevano solo se le proposte progettuali ottenevano il consenso alla unanimità. In particolare i vari sindaci delegati a partecipare alle conferenze oltre ad avere apposita delega del Consiglio comunale, prima di partecipare alla conferenza, sottoponevano il progetto alla comunità locale. In realtà la liturgia adottata era molto più capillare e garantista di ciò che chiamiamo “Dibattito Pubblico” e su cui evidenzierò dopo alcune mie forti perplessità.
Tornando quindi alle Conferenze dei servizi, effettuate con il ricorso alla approvazione unanime, non posso non precisare che in fondo per ottenere il consenso si è fatto senza dubbio ricorso a ciò che il professor Celotto definisce la “contrattazione del dissenso”, ricorrendo alle cosiddette “opere compensative” e in tal modo si è aperta in realtà una modalità che definirei “ricattatoria” per cui, oltre alle negatività prodotte dall’allungamento dei tempi e alla forte incidenza di interessi spesso eccessivamente capillari e localistici, si incrementava il costo dell’intero intervento. Solo dal 21 dicembre 2001, con l’approvazione della Legge 443/2001(Legge Obiettivo) si è passati ad una approvazione della Conferenza dei servizi non più alla unanimità e nel 2009 si è posto anche un limite finanziario alle richieste degli Enti locali definite “Opere compensative”. Ma sicuramente scatterà una obiezione: il Dibattito Pubblico non deve avvenire su un progetto definitivo già deciso ma deve avvenire, addirittura, sulla intuizione programmatica e pre-progettuale che, se condivisa da una maggioranza di soggetti direttamente o indirettamente interessati, può dare poi seguito all’elaborato progettuale ed alla sua copertura finanziaria. Allora non posso non confrontare l’iter autorizzativo e approvativo di un progetto in Italia e in Francia (ho fatto riferimento alla Francia perché il Dibattito Pubblico italiano nasce come imitazione sbagliata del Débat Public francese).
In Italia il progetto di un opera infrastrutturale è approvato dalla Amministrazione proponente (Anas, Ferrovie, Regione, Comune, ecc.); viene inoltrato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che lo istruisce, lo sottopone all’esame del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e lo invia a tutti gli organismi direttamente o indirettamente interessati, lo inoltra anche per ottenere due pareri determinanti al Ministero dell’Ambiente a cui compete anche la Verifica di Impatto Ambientale (Via) e al ministero dei Beni culturali che verifica se ci sono vincoli particolari archeologici o paesaggistici; poi viene effettuata la Conferenza dei servizi e in tale sede vengono recepite tutte le osservazioni, tutte le raccomandazioni, poi il progetto viene inoltrato al Dipartimento Interministeriale per la Programmazione Economica presso la Presidenza del Consiglio (Dipe) che istruisce ancora la proposta progettuale d’intesa con il ministero dell’Economia e delle Finanze in modo da sottoporlo all’esame del Cipe. Il Cipe esamina la proposta e redige apposita delibera di approvazione. Tale delibera viene approvata dalla Ragioneria generale dello Stato che ne ratifica la copertura finanziaria (in termini tecnici “bollinatura”) e viene inviata alla Corte dei conti che, dopo apposita istruttoria, la registra e la pubblica sulla Gazzetta Ufficiale. Questo itinerario purtroppo è vero e offre ampie possibilità di confronto con tutti gli attori direttamente interessati alla proposta progettuale. Tutti attori “democraticamente” delegati, tutti attori riconosciuti istituzionalmente.
In Francia la proposta progettuale viene prodotta dall’Amministrazione competente (pubblica o privata), viene approvata dal Ministero competente e sottoposta all’esame della Commission Nationale du Débat Public. Tale procedura istituita nel 1995 ripone grande rilevanza a tale Commissione che è totalmente indipendente e dispone di una grande flessibilità nell’organizzazione concreta del dibattito. Vi partecipano tutti i possibili stakeholder, organizzati e no, L’esito è puramente consultivo, senza potere decisionale e, soprattutto, non incrina la autonomia decisionale del soggetto proponente.
Appare, così, evidente che l’iter adottato dall’Italia non solo è più garantista e trasparente ma, a mio avviso, molto più coinvolgente e al tempo stesso coerente con il dettato della Costituzione che non accetta forme di “democrazia diretta”; ma la stessa Francia ricorrendo al Débat Public non attua alcuna forma di democrazia diretta perché in fondo la scelta rimane sempre all’interno del soggetto o dell’organismo proponente.
In realtà il ricorso al dibattito pubblico in Italia diventa solo una ulteriore aggiunta alla lunga e davvero folle istruttoria della proposta progettuale; la definisco “folle” perché in molti casi l’arco temporale è così lungo e tortuoso da produrre la obsolescenza della proposta stessa (l’iter medio, dal momento della intuizione programmatica e progettuale di grandi infrastrutture all’attuazione finale delle stesse, ha una durata di oltre nove anni).
Allora se invece volessimo davvero affrontare questa tematica legata al coinvolgimento dei fruitori diretti ed indiretti di una determinata scelta infrastrutturale dovremmo porci una prima domanda: se la proposta avanzata da un soggetto o da un organismo diventa definitiva solo se condivisa dalla maggioranza dei fruitori diretti ed indiretti della proposta stessa, chi sceglie il soggetto o l’organismo preposto alla definizione della proposta? Non è il mio un puro approccio filosofico ma penso che un simile interrogativo sia proprio una delle condizioni che ha portato i padri costituenti a non scegliere una “democrazia diretta”, a non cadere, come avvenuto ultimamente, nel ricorso, da parte dei Movimenti che fanno parte della attuale compagine di Governo, ai “gazebi” per ricevere il supporto conclusivo di una finta maggioranza, di ciò che, in modo davvero gratuito, definiscono “coinvolgimento democratico”.
Aggiornato il 28 maggio 2019 alle ore 12:37