L’otto marzo è passato da qualche giorno. “Giornata della Donna”. Pensando al futuro, uno sguardo al passato. Un passato neanche troppo lontano, in cui alle donne i diritti politici erano negati. La battaglia per il voto alle donne incominciò con il Secolo XX, in Inghilterra.
Io ricordo che bambino c’era una sorta di insulto che delle donne rivolgeva ad altre donne: “suffragetta”. Le “suffragette” sarebbero state le seguaci del movimento per il “suffragio” alle donne. “Suffragetta” era la donna un po’ “mascolina”, nei modi e nell’abbigliamento, ma, soprattutto, nelle “pretese”, sempre pronta a voler “mettere becco” nelle discussioni degli uomini… Che, insomma, “non sapeva stare al suo posto”.
In Italia, era, dunque un insulto. Ma non c’era il movimento “per il suffragio”. E non c’era neppure il “suffragio”, il diritto di voto né per le donne né per gli uomini. Un movimento “suffragista” di un qualche rilievo non c’era stato neanche prima del fascismo che ben presto abolì ogni forma di votazione popolare. Pochi sanno che a fare la prima “concessione” del voto alle Donne, o, almeno, ad una parte di Esse, era stato il fascismo che aveva “concesso” loro un’assai limitato diritto di voto, ma aveva impedito di esercitarlo, abolendolo quasi contemporaneamente per tutti.
Prima di teorizzare e realizzare lo “Stato totalitario”, abolendo ogni forma di democrazia e di suffragio popolare, il fascismo operò riforme che dovevano garantire che fosse sbarrato il passo ad ogni opposizione. Così la legge elettorale per la Camera fu modificata con la “Legge Acerbo”, un sistema maggioritario che emarginava ogni forma di opposizione.
Con un diverso ma più truffaldino intento, si elaborò dal governo fascista una legge elettorale amministrativa con la quale si concedeva il diritto di voto alle donne. Non però a tutte, ma solo a quelle che si presumevano che non fossero… “tanto inferiori agli uomini”.
Per essere elettrici (per i Comuni e le Provincie) le donne, infatti, dovevano essere in possesso di un titolo di studio di Scuola Media. “Titolo di studio” allora posseduto da pochissime persone e da un numero ancor più ristretto di donne. Con tale riforma veniva, in pratica, dato un apporto di voto ai partiti della conservazione sociale, cioè, oramai, ai fascisti ed ai loro satelliti e tirapiedi. E nei Comuni, dove, magari, c’erano ancora molte situazioni in bilico. Una “concessione” del suffragio senza le “suffragette”, senza l’esercizio del “suffragio” e, soprattutto, senza e contro la democrazia.
Nel frattempo, infatti, fu abolita ogni elezione di sindaci e di Consigli comunali. La legge non fu, quindi, mai applicata. Tanto che quell’esperimento (o meglio: progetto di esperimento) fu addirittura dimenticato. Ricordarlo non è inutile, perché serve a dimostrare che anche riforme “di gran nome” oggetto di calorosi dibattiti e di lotte lunghe e difficili, possono essere utilizzate in modo contrario alla loro logica ed allo spirito di chi le concepisce. Il primo voto effettivamente esercitato dalle donne in Italia fu, poi, quello delle elezioni comunali che si tenne prima di quello per la Costituente.
Ricordo bene che anche allora, se il voto alle donne era frutto di una maturazione, altrove avvenuta di un principio generale di uguaglianza, si ritenne che il voto femminile avrebbe “compensato” lo spostamento a sinistra dell’elettorato. I conservatori, gli ex (?) fascisti confidavano nei confessionali, dove i preti avrebbero imposto alle donne, pena l’Inferno, il rispetto del volere divino che, pare, fosse “di destra”.
Detto questo, non se ne può certo concludere che vi fu un “femminismo” fascista. E neppure un femminismo clericale. Anche se la stessa organizzazione totalitaria che il fascismo si diede e diede allo Stato, con la creazione di formazioni femminili fasciste (con divise, sfilate, etc. etc.), se non aprì alle donne nuovi orizzonti nella società, finì in qualche modo per alterare e scombinare i vecchi. L’idea di un apporto determinante femminile alla Democrazia Cristiana e con essa alla parte conservatrice (una sorta di femminismo dei confessionali) si dimostrò ben presto anch’essa una strumentalizzazione “sbagliata”.
Il “femminismo” aveva una sua dimensione e sue ragioni di sviluppo che non si prestavano certo a strumentalizzazioni per finalità retrograde. Ma non per questo certi fatti vanno dimenticati.
Aggiornato il 12 marzo 2019 alle ore 11:31