Sono un “pentito”

Domenica 19 aprile 1993 (si era votato anche sabato), come la maggioranza (82,74 per cento) degli italiani – quel referendum raggiunse l’ottimo 77,01 per cento di quorum –, votai a favore del referendum Segni. Che, di fatto, introdusse in Italia il sistema maggioritario per l’attribuzione dei seggi in Parlamento. Era, quella, un’epoca in cui la furia iconoclasta pervadeva tutto l’elettorato: e a ragione, dopo l’ennesimo apriscatole che portava alla luce le pratiche da cui trae a nutrimento personale una parte della classe politica italiana. Sì, una parte, perché la grande maggioranza di essa era composta da gente perbene (quelli che oggi vivono solo con i vituperati vitalizi). Ero convinto che quel secondo apriscatole (il primo risultò vittorioso con il passaggio referendario del 9 giugno 1991, sulle “preferenze”) potesse depurare del tutto la politica nazionale dalle “pratiche equilibristiche” che avevano pervaso la cosiddetta “Prima Repubblica”, aprendo la strada a magnifiche sorti e progressive.

Era quella un’epoca in cui tutto il popolo urlava “rivoluzione”, “abbasso la politica dei ladri”: perché era giustamente indignato per le vicende di Tangentopoli, che avevano riempito le tasche di alcuni. Quel referendum, però, proponeva un nuovo modo di fare politica: l’essere “o di qua, o di là” assecondava – di fatto – la digestione, tardiva, dei resti del Muro di Berlino, tradotto in un “no ai comunisti”, come si affrettò a sintetizzare il “mago della pubblicità”, Silvio Berlusconi. È l’icona dei duri e puri (anche se i fatti successivi dimostreranno che poi non era del tutto così) quella che un Berlusconi magro, un po’ impacciato e contratto, ogni tanto si esuma dal fondo dei cassetti, dove – giustamente – riposa tra la naftalina. Da allora iniziò la lunga epopea che ci ha portato dritti dritti ai disastri attuali. Contrassegnati dall’apparire, più che dall’essere e dall’uso strumentale di tematiche di “cassetta”, per annichilire il popolo beante: non rendendosi conto della persistenza di elementi da cui non possiamo affatto prescindere. Un nuovo quadro internazionale di rapporti e pure monetario, in cui siamo. In più con un debito pubblico che ci condiziona non poco.

Anche i presidenti del Consiglio della “Prima Repubblica” erano il frutto di estenuanti mediazioni ed essi avevano più il compito di rappresentare il punto di contatto tra diversi: sempre intenti a rammentare le intemerate di ministri “esuberanti”. Non esisteva un “dominus” della situazione (prima di Bettino Craxi, che fu il vero apripista dei personalismi attuali), ma semplicemente il presidente era il “primus inter pares”, com’è giusto che sia: e mediava, mediava, mediava. Io votai contro quel sistema perché mi ero stancato delle conciliazione e volevo il sanguigno “o di qua, o di là”. Dando corda a una politica muscolare che è andata, via via, degradando fino ad oggi. Dove, l’altro, è “il nemico da sopraffare e uccidere” e dove la popolarità di un politico la si misura non tanto sulle cose che fai per la gente, ma per il colore dei calzini che porti, oppure per le amanti che hai, ovvero per i piatti che mangi. E intanto l’Italia sprofonda in un baratro senza fine.

Mi pento, mi pento, mi pento.

Aggiornato il 25 febbraio 2019 alle ore 17:19