Brutto vizio, la memoria. Rimane scolpita quella frase, con compiacimento ripetuta, mai rinnegata, da tanti condivisa: “Gestione oscura e privatistica”. In apparenza rivolta all’indirizzo, specifico, di una persona: colpevole di essere rigoroso nella gestione dei pochi concreti averi, e di aver ben assimilato l’unico vero patrimonio, quello politico e culturale, lasciato da Marco Pannella; in realtà quell’affermazione (ripeto: “Gestione oscura e privatistica”) era scagliata contro i tanti che non si volevano (e non si vogliono) piegare alla politica delle opportunità, e intendevano (e intendono) percorrere altri sentieri: quelli difficili delle opportunità della politica.

Il richiamo mnemonico serve per tentare l’abbozzo di risposta a quanti, oggi sorpresi, chiedono: cosa accade a “Più Europa”? Cos’è questa frattura fra dellavedoviani e cappatiani di cui scrivono i giornali? Che significa l’annunciato esposto alla magistratura per irregolarità congressuali, e tutto il resto? Perché per loro, i “sorpresi”, “Più Europa” è qualcosa di assimilabile al Partito Radicale, una sua costola.

Hai voglia di spiegare che “Più Europa” è una cosa distinta dal Partito Radicale; che l’uno non ha niente a che fare con l’altra; che le due organizzazioni perseguono obiettivi diversi, le politiche; diverse sono le pratiche quotidiane; che ognuno percorre, giusta o sbagliata che sia, una sua strada, e buona fortuna.

Immancabile la domanda: ma che, Emma Bonino non è forse radicale? Ma certo, che lo è, come chiunque paga la quota annuale dell’iscrizione. Si chiami Bonino, Cappato, come in passato radicali erano contemporaneamente mafiosi e premi Nobel. Non importa da dove si viene, conta il percorso comune che si decide di fare. Il Partito Radicale non è una sommatoria, un aggregato, un’“unità”. Piuttosto è un’“unione”. Questo voler distinguere tra “unità” e “unione” non è questione semantica (e tuttavia: l’uso delle parole, il loro significato, conta); è un qualcosa di prettamente politico: la “descrizione” di due concezioni di intendere e fare la politica. “Più Europa” è “unità”. Il Partito Radicale è “unione”.

Di questo bizzarro partito s’è sempre detto che è una sorta di autobus: si sale, si paga il biglietto, si scende quando si ritiene di essere arrivati, oppure si prosegue. Quando si è a bordo, si è tutti titolari di identici doveri e diritti: chi è salito al capolinea come chi scende dopo due fermate. Certo: se uno scende, o non paga il biglietto, non può rivendicare nulla. Ma fino a quando è a bordo, può votare, candidarsi alle cariche interne, proporre documenti politici, intervenire alle assemblee; e nessuno glielo può impedire, può decretare espulsioni di sorta, escludere, respingerne la presenza, non ci sono commissioni di garanzia, e “commissari”, tribunali di moralità e probiviri...

Molti di “Più Europa” dall’autobus radicale sono scesi, hanno deciso di non pagare più il biglietto. Chiamarli radicali è un abuso che giornali e televisioni accreditano, in qualche modo legittimano. Poco importa se per dolo, colpa, scienza, ignoranza. Conta che accade. Più o meno è quello che accadeva in anni passati: quando i seguaci di Fausto Bertinotti o di Nicky Vendola venivano definiti “sinistra radicale”. Di sinistra lo erano, lo sono tuttora. Radicali forse come aggettivo. Come sostantivo invece un abuso. Per qualche ragione oscura da quel che diceva e faceva Pannella si dichiaravano stellarmente lontani, perfino ostili; l’etichetta però non facevano nulla per respingerla. Come i dirigenti di “Più Europa”.

Così, per paradosso, accade che quel tanto o quel poco di buono e di giusto che il Partito Radicale, si riversa anche su coloro che radicali ora non sono più (anzi, a volte è per loro un punto d’onore rivendicare distanze e dissenso); mentre quel tanto o quel poco di sbagliato e non buono che “loro” fanno, sul Partito Radicale.

Tra il tanto di sbagliato e di non buono che gli aderenti e dirigenti di “Più Europa” hanno fatto e fanno, c’è il vagheggiare una presenza elettorale per il prossimo Parlamento Europeo; si presentano come gli alfieri di una piattaforma confusa, raffazzonata, priva di contenuto concreto, con parole d’ordine retoriche e senza contenuto politico; per dire: perfino il vacuo “manifesto” di un Carlo Calenda, è più concreto. Quello di “Più Europa” è “semplicemente” un “aggiungi un posto al tavolo”: duplicazione di quello che è avvenuto per le ultime elezioni politiche. Pazienza: ogni botte dà il vino che ha; in questo caso è aceto. Non che sia un problema, non fosse che questo “aceto” viene spacciato come radicale. E non lo è.

Che non sia, lo dimostra la “pratica” del recentissimo congresso di “Più Europa”: liste preconfezionate prima del congresso; candidature respinte da una commissione di garanzia, che modifica regole, comunque discutibili, a gioco iniziato; iscrizioni negate; accuse di congressisti “cammellati”; ciliegina finale: annuncio di presentazione di esposti alla magistratura perché accerti la regolarità o meno dell’accaduto, come se si trattasse di un Formigoni qualsiasi.

Alle ortiche la sorniona lezione pannelliana: sostenitore di un partito “aperto”, e congressi nei quali tutti gli iscritti, quello da novant’anni e quello di nove minuti con eguale diritto di voto e partecipazione. Gli chiedevi: e se arrivano degli iscritti prezzolati che si impadroniscono del partito? “Facciano pure, io vado nell’altra stanza, e con chi mi segue ne faccio un altro”. Questa pratica era, è radicale. Non è una cosa dell’oggi. Per questo il richiamo iniziale: l’accusa di “gestione opaca e privatistica”, condivisa e mai rinnegata. In quei giorni, Marco Pannella già segnato dalla malattia che alla fine lo stronca, è una riunione continua, nella sede di via di Torre Argentina, aperte come sempre al contributo di tutti.

Ostentatamente, alcuni che oggi pontificano negli strapuntini di “Più Europa”, con sorriso beffardo, le disertavano, occupati in altro. Ostentatamente mostravano disinteresse per le battaglie politiche che vedevano Pannella impegnato a tempo pieno: la giustizia giusta; il diritto umano e civile alla conoscenza, a essere conosciuti, a poter conoscere.

Non è cosa dell’oggi. Nei giorni del governo Letta, a cercare di dare corpo alla battaglia politica per l’amnistia della Repubblica, due ministri: quello della Giustizia, Anna Maria Cancellieri; e della Difesa, Mario Mauro. Ne mancava uno, di ministri, che pure avrebbe dovuto essere in prima fila. No, non c’era.

Non è cosa dell’oggi; sono cose di un passato che non passa, e che aiutano a capire quello che accade. Nella storia del Partito Radicale c’è una vera e propria pietra miliare, il congresso del Partito Radicale nel carcere di Rebibbia; e non solo perché è il primo congresso dopo la morte di Marco Pannella. Non solo perché è la visiva rappresentazione di un corpo politico che non si arrende, non accetta di scomparire nell’oscurità di una lunga notte; che legittimamente orgoglioso rivendica il diritto (e anche il dovere) di continuare a vivere e lottare per quello in cui si crede, e si crede sia giusto; un congresso fatto di persone che nonostante il comprensibile smarrimento e l’inquietudine per un presente e un futuro confuso e incerto, trova la forza di dire: siamo qui, qui siamo.

Quel congresso da chi avrebbe dovuto avere l’intelligenza politica e la sensibilità umana di assicurare presenza e partecipazione è stato ostentatamente disertato. Una diserzione che dà la cifra di quel che si era, di quel che si è. Non si è capito l’importanza di quel congresso? È possibile. O, al contrario, lo si è capito, e di conseguenza ci si è comportati? È altrettanto possibile. Fatto è che quel congresso di Rebibbia, è un qualcosa di unico e straordinario per il solo fatto che si sia stato tenuto, e al di là dei risultati, che pure sono importanti. Ma si parla di cose che ai “piacioni” il cui scopo e fine è “piacere alla gente che piace”, importano poco, anzi nulla.

Propongo, ora, un salto indietro: fine di luglio del 2015. Pannella, nel corso della sua domenicale trasmissione a “Radio Radicale”, stupisce molti (e fa “notizia”). Osserva che “Emma Bonino si comporta come se si fosse dimessa dal partito. Lei non opera più da militante ed esponente radicale. Ha contatti con tutto il mondo tranne che con noi. Tanto per lei il problema è di continuare a fare parte del jet set internazionale”. Dice anche altro, Pannella, chi è interessato riascolti la trasmissione. Per quel che qui importa, il passaggio citato è sufficiente. Apparve ingiusto, ingrato, perfino fuori di senno, Pannella, quel giorno. Tanti, come nella famosa canzone di Francesco De Gregori: “pensarono dietro ai cappelli/lo sposo è impazzito, oppure ha bevuto...”. No: lo “sposo” Pannella aveva da tempo avvertito e detto: “Non ci sto più”. Oggi (ma davvero c’era bisogno di aspettare “oggi”?) con il congresso, il pre-congresso, il post-congresso di “Più Europa” sappiamo, vediamo, capiamo che Pannella non era impazzito, non aveva bevuto.

A questo punto, si dovrebbe cercare, forse, di raccogliere l’invito di Virgilio a Dante: “Fama di loro il mondo esser non lassa; / misericordia e giustizia li sdegna: / non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Ecco: passiamo; pensiamo all’hic et nunc. Sono tempi in cui tanti – e in particolare a quanti ci stanno sgovernando – sono impegnati a parlare senza dire; guardano senza vedere; sentono senza ascoltare. In un suo famoso aforisma Karl Kraus avverte che il segreto dell’agitatore è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui. Gli agitatori di oggi ce la mettano davvero tutta, per rendersi stupidi come credono noi si sia; a forza di indossare la maschera, gli si è incollata al punto tale che è diventata un tutt’uno con il viso.

Comunque, per quanto noi si possa essere stupidi, loro, gli agitatori, nei fatti, dimostrano di esserlo molto più di noi. La loro stupidità, la loro supponenza, la loro arroganza, ci minaccia, rischia di travolgerci. È una “peste” che si declina insieme nella sua versione alla Manzoni, alla Poe, alla Camus; con quello che ne consegue. Incalzati da mille quotidiani eventi, forse è giunto il momento di ritagliarci un momento per, anche, tirare un attimo il fiato. Forse si è arrivati al punto in cui ognuno di noi deve osservare un momento di silenzio: per meglio ascoltare, riflettere, cercare di capire.

Forse si è arrivati al punto in cui anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica quelle parole che nessuno più dice. Forse si è arrivati al punto in cui ognuno deve porsi domande, e al tempo stesso cercare risposte. Accade tutto troppo velocemente; forse, per non essere travolti, stritolati da questo vortice, occorre fermarsi un momento: appunto per vedere, ascoltare, capire: per ritrovare il senso di tante cose che rischiano di andare smarrite.

Penso che ci sia grande bisogno di memoria e di ricordo, se si vogliono percorrere nuovi sentieri, che già si annunciano più difficili di sempre; non temessi di essere frainteso, direi che occorre dotarsi di una capacità camaleontica: essere sempre noi, e al tempo stesso mimetizzati; capaci di praticare pragmatica prudenza e insieme sorprendenti audacia; di candida intelligenza, la capacità di meravigliare; di cogliere e scegliere i tempi giusti; soprattutto il coraggio e la voglia di sognare.

Aggiornato il 06 febbraio 2019 alle ore 13:24