La politica di Salvini

“Così come nell’educazione o nelle professioni, anche in politica creare un precedente comporta la perdita di autorevolezza e il probabile fallimento della strategia”.

Lungi da me avallare l’intera azione politica di Matteo Salvini, priva di qualsiasi visione genuinamente liberale e caratterizzata, come è per la maggioranza dei leghisti, da una preparazione culturale assai limitata e confusa.

Sta però di fatto che, in tema di immigrazione, l’attuale ministro degli Interni ha predisposto una linea di condotta semplice e chiara tesa a bloccare gli sbarchi in Italia, già fortemente diminuiti dopo l’iniziativa di Marco Minniti ma ancora esistenti e certamente pronti a riprendere alla grande. Questa linea politica persegue due finalità aggiuntive, ossia, da un lato, costringere la Comunità europea a rendersi fattivamente conto della questione e, dall’altro, vanificare gli affarismi dei cosiddetti scafisti.

Questa strategia, a causa del fatto che gli arrivi avvengono per mare, si pone molto vicino a limiti etici e giuridici rilevanti poiché, a tutti gli effetti, fermare persone su una nave non è la stessa cosa che fermarle ad una normale frontiera su terra ferma. Nella sostanza, tuttavia, seppur portata al limite, la strategia di Salvini non pare, fino ad oggi, aver prodotto conseguenze tragiche di alcun tipo. L’insieme dei problemi generati dalla linea politica di cui stiamo parlando si può sinteticamente definire come un tasso di disagio che i migranti sono costretti a sopportare e che, in precedenza, non dovevano affrontare. Un disagio che certamente va messo su un piatto della bilancia, non dimenticando che, sull’altro, va posta l’efficacia della strategia di scoraggiamento delle partenze e di contenimento degli arrivi. Le considerazioni da fare sono semmai altre.

In primo luogo, le reazioni accalorate delle sinistre sono del tutto esagerate e grottesche, arrivando a presentarsi persino come scandalose se si pensa all’analogia, proposta da non pochi personaggi eticamente sprovveduti, con le leggi razziali, l’antisemitismo e la Shoah. Si può infatti sottolineare che, a differenza degli ebrei sotto il dominio nazista, gli immigrati non sono costretti con la forza a salire sui barconi, per cui sono disposti invece a pagare, né sono destinati ad essere sterminati nelle località di arrivo. E’ poi quasi amaramente ridicolo che, per dimostrare la precarietà della vita quotidiana sulle navi delle ONG, ormai più di una, si citi il fatto che a bordo vi sia una solo bagno per decine di persone: questo si chiama, appunto, disagio; un disagio che gli ebrei avrebbero sicuramente preferito rispetto all’abbondante presenza, nei campi in cui erano concentrati, di efficientissimi impianti per la doccia che però si rivelavano strumento di morte. Né, sui treni in cui venivano assiepati , ricevevano cibo, medicinali e coperte nonché la sussiegosa visita di deputati con tanto di giornalisti e mass media al seguito.

In secondo luogo, al di là della polemica, va da sé che sarebbe preferibile perseguire lo scopo finale, cioè l’attenuazione degli sbarchi ad libitum e l’ottenimento di attenzione concreta da parte della Comunità Europea, senza arrivare al limite di cui stiamo parlando. Ma, a quanto pare, nessuno, da sinistra come da destra, da Roma come da Bruxelles, ha in serbo una strategia migliore per risolvere un problema che tutti definiscono epocale ma la cui ineluttabilità sembra concludersi nel dovere della sola Italia di accogliere chiunque e per sempre.

Ciò che manca, purtroppo, nella politica salviniana, è la statura politica del personaggio, il quale, con il suo fare rozzo e spesso sprezzante, non fa altro che consentire agli oppositori della sua linea di condotta di descriverla come truce e disumana. Invece che attraverso continue apparizioni televisive e sproloqui senza costrutto, un vero statista che avesse stabilito la sua stessa strategia tesa a scoraggiare le partenze, l’avrebbe presentata con un solo e definitivo discorso pubblico, serio e autorevole, dal quale avrebbe dovuto emergere persuasivamente che la decisione di bloccare gli sbarchi nei porti italiani è stata presa a malincuore ma si è resa inevitabile per il triste ‘stato di necessità’ in cui l’Italia si é venuta a trovare a causa di processi che non può, da sola, controllare in Africa e in Europa e di fronte al crescente malessere interno. Dichiarando, e attuando con regole semplici e precise, l’ovvia prassi di salvaguardia dei più deboli e di chi effettivamente sta fuggendo da guerre o persecuzioni, un vero statista non si troverebbe, ora, di fronte al dilemma se cedere o non cedere alle molteplici pressioni cui è sottoposto creando, se cedesse, un precedente che significherebbe la sconfitta definitiva della strategia, senza alcun vantaggio collaterale.

Aggiornato il 29 gennaio 2019 alle ore 11:00