La dittatura della comunicazione politica

A un politico che ti promette qualcosa di fantascientifico in campagna elettorale, non potendo desumere se quel che dice intende davvero farlo dalle sue impronte digitali o dall’esame del dna, non rimane che fare un unico tipo di analisi: quella del linguaggio. Che lui stesso usa. Esiste con la semiologia la possibilità quasi certa di inquadrare il significato e il significante in relazione a chi comunica. In politica le esigenze di comunicazione, per l’appunto, hanno sovrastato di gran lunga il contenuto politico. Per cui se per acchiappare voti occorre promettere “più galera per i delinquenti”, in realtà potenzialmente per tutti come avviene in Turchia o in Iran, non se ne parla di fare ragionamenti. Si usa lo slogan, lo si twitta e buonanotte ai senatori.

L’elettore dovrebbe difendersi da questo inganno, da questa truffa. Perché alla lunga gli venderanno il futuro boia che lo impiccherà come il suo migliore amico. Magari quello che gli assicura la “sicurezza”. Senza nemmeno sapere se lui veramente, uti singulo, ha tutto ’sto bisogno di maggiore sicurezza. In questi giorni – e da tempo – il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, sta facendo un gesto controcorrente contro questo andazzo alla Cambridge Analytica. O alla Casaleggio se vogliamo giocare in casa. Pensate, mentre tutti invocano la galera come rito purificatore di massa con la variante dell’autodafé, lui, il presidente della Corte costituzionale visita le carceri italiane per parlare di Costituzione – per l’appunto – di stato di diritto, di umanità della pena, di rieducazione e di articolo 27 della nostra carta.

Chi scrive non conosce se non per la chiara fama di professore del diritto l’attuale presidente della Consulta. Ma può stare certo che per qualche giorno l’ho idolatrato come se fosse una vecchia rockstar degli anni Settanta con cui ho condiviso idealmente la mia adolescenza.

Aggiornato il 08 ottobre 2018 alle ore 11:18