Nel nome di Matteo

Un tempo strano, il nostro. In cui, cioè, la cronaca “è” politica, con i suoi effetti-annuncio, come quelle decisioni e quei provvedimenti governativi che arrivano in diretta social, anziché dagli uffici competenti e dai luoghi di intermediazione dove, per il principio cardine del diritto amministrativo, si vengono a contemperare i diversi interessi coinvolti. Un nome, Matteo, ricorre molto spesso, a destra come a sinistra, per questa sistematica “disintermediazione” che elimina ed emargina i così detti “corpi intermedi”, come sindacati, associazioni di categoria, enti esponenziali dei cittadini e delle loro organizzazioni nel territorio. Matteo Renzi e Matteo Salvini sono maestri di questa politica dell’annuncio e dei provvedimenti-manifesto, il cui unico scopo è di perpetuare, con altri mezzi, una ininterrotta campagna elettorale. Vale forse la pena tentare di spiegare alcune, fondamentali ragioni per cui dalla democrazia delegata, o rappresentativa, si è passati a quella partecipata e diretta. La prima causa è stata la progressiva e oggi irreversibile scollatura tra popolo ed establishment.

Chi doveva guidare i destini della Nazione si è affidato a una selezione politica mediocre, accomodandosi su di una auto legittimazione di facciata che ha avuto nel “politicamente corretto” il suo totem mondiale e globalizzato. Per cui si è sviluppata una percezione nettamente favorevole al reo e un’incuranza disastrosa per le sue vittime. Così si sono nascosti sotto il tappeto gli enormi disagi dei comuni cittadini sia nei confronti di un’immigrazione illegale di matrice africana e magrebina, che generano assieme alla delinquenza autoctona una microcriminalità diffusa che da quel tipo di emarginazione discende, sia per le comunità rom che danno adito ad analoghi pregiudizi a causa dell’elevata, relativa statistica di reati contro i beni e la proprietà privati. Progressivamente, con la scomparsa letterale dei partiti territorializzati, i cittadini hanno perduto i luoghi fisici di prossimità e di intermediazione con il potere, rifugiandosi nel mondialismo dei social in cui tutto sembra a portata di mano e di facile, diretta spiegazione. Una moltitudine di persone che non si sarebbero mai incontrate per le notevoli distanze territoriali, improvvisamente si è trovata a dialogare quotidianamente e a formare gruppi virtuali di opinione sempre più numerosi, agguerriti e spesso monotematici, con scarsa capacità sia dialettica che di mediazione.

I due Mattei, Renzi e Salvini, hanno calvalcato magistralmente l’onda impetuosa e umorale dei social: il primo ricorrendo a una narrazione del tipo “Tout-va-bien Madame la Marquise” su occupazione e ripresa economica, nettamente smentite dalla chiara percezione individuale dell’esatto contrario. Del resto, sono ben altri i fattori che determinano le sorti delle economie nazionali, condizionate dai soggetti finanziari internazionali. Salvini, invece, ha felinamente intuito gli immensi spazi di leadership che i governi inconcludenti precedenti gli avevano regalato, e si è avvalso degli strumenti di diretta comunicazione con decine di milioni di utenti per investire politicamente sull’immenso bisogno di sicurezza e di “cattiveria”, che distingue l’umore di chi non ne può più delle indomabili crisi economiche a ripetizione e di un’accoglienza indiscriminata agli immigrati, resa impossibile in un Paese in cui parecchi milioni di cittadini sono drammaticamente scesi sotto il livello di sussistenza. In più il mitico “rinnovamento” promesso dall’altra componente governativa stellata manca di molte migliaia di nuove, immacolate posizioni di una dirigenza pubblica selezionata per merito dovendosi così accontentare del vecchio e logoro establishment precedente per provare a governare. Con i risultati che già si vedono, vedi il nuovo caso Roma.

Aggiornato il 20 giugno 2018 alle ore 13:50